Papa Francesco e le guerre: il pensiero incompiuto

Papa Francesco: guerre e pensiero
Roma, tramonto | © Leonard Cotte

Papa Francesco: guerre e pensiero. Le religioni sono un elemento delle relazioni internazionali. Dalla guerra d’Ucraina al conflitto arabo-israeliano, le posizioni di Francesco lasciano aperti molti interrogativi. La questione delle migrazioni, di fronte ai problemi causati dai flussi incontrollati. I nuovi autoritarismi e il futuro dell’identità europea. Cosa attendersi dal suo successore al soglio di Pietro?


La morte di un papa lascia un’eredità che incide sul mondo per una ragione oggettiva: le religioni sono uno dei molti elementi che costituiscono le relazioni internazionali. Questa affermazione non dipende dal sentimento soggettivo che lega (o no) gli individui a una fede. Le religioni orientano anche oggi, più di quanto pensiamo, l’agire di tutti noi e le decisioni dei governi. Quando un capo religioso raccoglie intorno a sé miliardi di fedeli in tutto il mondo, lascia tracce nelle relazioni planetarie. Ciò vale a maggior ragione per Papa Francesco. La sua inusitata schiettezza ha permesso più volte di guardare dentro la Chiesa, nel suo agire verso il mondo.

Di Giovanni XXIII resta nella Storia l’appello alla pace che pronunciò nell’ottobre 1962, nelle ore più tese della crisi di Cuba, che minacciava di gettare il mondo in una nuova guerra globale. Di Giovanni Paolo II risuona ancora l’esclamazione: «Non abbiate paura!» che pronunciò a pochi giorni dalla sua elezione. Diventò la cifra della sua opposizione ai regimi comunisti, senza nascondersi dietro le ambiguità.

Di Francesco si ricorderà, forse, il «Chi sono io per giudicare?» con cui, nel 2013, rispose a una domanda sulla questione omosessuale. Questo motto sembra essere diventato il distintivo del suo pontificato, almeno sulle crisi internazionali aperte: la >guerra in Ucraina e la relazione con la >Russia, lo scontro in >Palestina e la >questione migratoria. Altri aspetti dello sguardo di Francesco sul mondo sono la visione di >povertà e potere e dei >valori del nostro tempo. Quali sfide lascia aperte al suo >successore?

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FRANCESCO: SULLE GUERRE UN PENSIERO CHE RIFLETTE IL NOSTRO TEMPO

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Il chi sono io per giudicare è la miglior prova di quanto Francesco abbia incarnato il nostro tempo. Si rinuncia al giudizio, poiché giudicare obbliga a cogliere gli oggetti nella loro complessità – una parola ormai quasi inutilizzabile, per le distorsioni che subisce, usata come falso sinonimo di difficile o complicato, brandita come paravento per nascondere le falsificazioni della propaganda. La uso, qui, nel suo significato autentico, dal latino complecti: complesso è ciò che abbraccia, comprende molte cose, anche lontane fra loro.

Dalla complessità nasce per sintesi una dottrina. Dalla dottrina discende una norma rispetto alla quale si misura il caso singolo e lo si giudica, se conforme o no alla norma. Rinunciare al giudizio, allora, è rinunciare alla complessità. Possiamo ricordare un’altra parola, cara alla filosofia postmoderna: decostruzione, spinta però all’eccesso. Si decostruiscono – cioè si smontano – le nozioni oltre i limiti, sino a privarle del loro valore assoluto e misurarle solo in un contesto relativo. All’estremo, più nulla ha significato oggettivo: ogni cosa può essere persino il suo contrario, non resta che l’arbitrio.

Con questo procedimento, l’Uomo rinuncia alla capacità più alta della sua specie, che nessuna intelligenza artificiale può sostituire: la capacità di abbracciare una complessità potenzialmente infinita. La persona, allora, si rifugia sotto la dittatura intellettuale del nostro tempo, il relativismo. Se tutto è relativo, persino l’opinione personale diventa misura della realtà e i fatti scompaiono, travolti dalle interpretazioni individuali, anche infondate. Non conta più, in una guerra, chi ha torto e chi ha ragione, chi aggredisce e chi subisce: tutto serve a costruire un’interpretazione che non si fa scrupolo di calpestare i fatti e le persone che li compiono. Non si distingue più tra la vittima e il carnefice, perché la distinzione tra l’una e l’altro è stata decostruita, sino a ridurla a un elemento funzionale a un fine eterogeneo.

La «terza guerra mondiale a pezzi» e la guerra d’Ucraina

«Sia il vostro parlare: sì sì, no no; il di più viene dal maligno» (Vangelo di Matteo 5,37): significa che la verità dell’Uomo è nella corrispondenza dei suoi e dei suoi no, cioè dei suoi giudizi, con la radice del suo pensiero, ogni orpello è diabolico. Nel mondo di oggi, quello della «Terza guerra mondiale a pezzi,» come Francesco stesso l’ha definita con efficacia, mentre i pezzi di questa guerra si saldano in una minacciosa unità, dal Papa si attendevano proprio i e i no del Vangelo di Matteo. Al loro posto, purtroppo, si è sentita una serie imbarazzante di ma anche, talvolta persino qualche laddove ci sarebbe voluto un no chiaro, e viceversa.

Alla ripresa della guerra d’Ucraina, il 24 febbraio 2022, mentre il Papa condannava con espressioni prudenti l’uso della forza, Monsignor Carlo Maria Viganò emetteva dal Vaticano un delirante pamphlet nel quale sosteneva con parole esplicite le ragioni di Vladimir Putin. Si sospettava già allora, che la condanna della guerra pronunciata da Bergoglio non fosse che un ossequio alla forma, e che la posizione autentica della Chiesa sulla questione ucraina fosse quella espressa da Viganò.

Tra Bergoglio e Viganò, su altre materie, è sorto uno scontro che ha indotto il primo a scomunicare il secondo. Una rissa di portineria curiale che non meriterebbe di essere citata, se non fosse che proprio sulla guerra in Ucraina la posizione di Bergoglio è rimasta quella di Viganò, dietro formulazioni appena smussate, nonostante la scomunica e lo scontro fra i due.

Papa Francesco: quale pensiero dietro la Quaresima di guerra?

La prima Quaresima di guerra, nel 2022, Papa Francesco impose che la croce della Via Crucis di Roma venisse portata insieme da due donne, una russa e una ucraina. Intanto, sul campo di battaglia si susseguivano le peggiori atrocità, per mano della Russia, Stato aggressore, ai danni dell’Ucraina, Stato aggredito. Non mancò chi tentò di giustificare questa decisione del Papa con i consueti, astratti teoremi teologici, tanto dotti quanto estranei al vissuto degli individui.

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Nella realtà, quel gesto significava una sola cosa: il Papa non distingueva le responsabilità della guerra e metteva l’aggredito sullo stesso piano dell’aggressore, chiedendo a entrambi di pentirsi. Ma di cosa dovremmo pentirci noi, si chiesero – e si chiedono ancora oggi – gli ucraini? La violenza di quel gesto fu tale, che la televisione ucraina rifiutò di mandare in onda la Via Crucis del Papa. Se il pastore avesse ascoltato le sue pecore, non avrebbe imposto quella scelta, offensiva del buon senso, oltre che dei lutti di chi, ucraino, vedeva figli, mariti e fratelli cadere sul campo sotto i colpi dei russi.

PAPA FRANCESCO, GUERRE E PENSIERO: LA RUSSIA

Papa Francesco: guerre e pensiero sulla Russia e l'Ucraina
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Francesco non ha perso occasione per posizionarsi a giustificazione della Russia. Ha riconosciuto nella guerra d’Ucraina colpe inesistenti della NATO, scadendo al livello dei più biechi propagandisti da salotto televisivo; ha esaltato la grandezza della Russia imperiale, incoraggiando i giovani russi a proseguire sulla strada degli zar, citando esplicitamente Caterina II, l’imperatrice che a inizio Settecento completò la sottomissione dell’Ucraina alla Russia. Ha consigliato agli ucraini di avere il «coraggio di alzare bandiera bianca» – cioè di arrendersi. Non ha spiegato il perché, però. Quale versetto evangelico giustifica la sottomissione alla prepotenza del più forte; la consegna della propria terra, delle proprie case e delle proprie vite a chi spara più lungo? Quale ricompensa attende, nell’aldilà, chi si china al nemico violento e predatore?

«Chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio […] e chi gli dice: pazzo! sarà destinato al fuoco della Geènna» – sono le parole di Gesù riportate da Matteo (Mt 5,22). Cosa deve succedere, oltre un’aggressione militare, per integrare la fattispecie di «adirarsi con il proprio fratello?» Se per il Vangelo basta dire pazzo! al proprio fratello, per essere gettati al fuoco dell’inferno, una guerra d’aggressione del «fratello» russo al «fratello» ucraino non basta, affinché un papa esca dall’ambiguità?

La guerra in Ucraina è il luogo dove tutti siamo chiamati a ricordare: sia il vostro parlare sì sì, no no. E’ un aut aut (o di qua o di là) che non ammette un sed etiam (ma anche). Il Papa, sulla guerra in Ucraina, ha trascinato se stesso e i cattolici in una disimpegnata ambiguità, in nome di un «siamo tutti fratelli» imposto a coloro che dai presunti «fratelli» vedono uccidere i propri figli. Non basta dire che le religioni non possono essere «chierichetti del potere,» come fece Francesco parlando con il patriarca russo Kirill, se poi si agisce all’inverso.

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LA PALESTINA E LA STORIA DIMENTICATA

Sull’altra guerra che tormenta il nostro tempo, quella di Palestina, se si escludono le rituali condanne per gli eventi del 7 ottobre 2023, Papa Francesco ha gettato la Santa Sede senza equivoco dalla parte di Hamas. Il culmine s’è toccato quando Francesco ha venerato un Gesù Bambino deposto su una Kefiah, l’indumento diventato simbolo della lotta terrorista di Hamas – e non, bisogna ricordarlo ogni volta, delle sofferenze del popolo arabo-palestinese.

Gesù nacque ebreo nella terra che oggi chiamiamo Palestina, ma gli arabi e l’islamizzazione vi giunsero sei secoli dopo la sua nascita. Il conflitto tra arabi e israeliani non è colpa degli ebrei, come predica la vulgata corrente: non furono gli ebrei, a rifiutare la convivenza con gli arabi in Palestina e la soluzione a due Stati, nel 1947.

Furono gli arabi ad aggredire lo Stato di Israele, la notte stessa della sua fondazione, per «liberare» la Palestina dal Giordano al Mediterraneo, from the river to the sea, come urlano oggi i dimostranti filo-arabo-palestinesi in Occidente. La battaglia di Hamas è ancora oggi quella di allora: cacciare gli ebrei dalla Palestina, distruggendo lo Stato di Israele. Questo è il proposito, antistorico e antigiuridico, che abbraccia chi indossa una Kefiah, altro che la sorte dei civili arabo-palestinesi.

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Il pensiero di Papa Francesco sulle guerre: verità taciute

Papa Francesco e la sulla questione palestinese: guerre e pensiero
Le analisi degli eventi internazionali di Luca Lovisolo

Nelle settimane scorse, alcuni civili di Gaza hanno tentato di protestare contro il dominio di Hamas. Se davvero avessero a cuore il destino degli abitanti di Gaza, il Papa e tutti coloro che si dicono sostenitori della «causa palestinese» avrebbero dovuto levare la loro voce a sostegno di quei pochi dimostranti coraggiosi. Hanno taciuto, invece, svelando, se ve ne era bisogno, che la causa palestinese è la causa dei terroristi di Hamas: se i civili arabo-palestinesi non hanno pane, mangino brioche. Un papa dovrebbe ricordare che Israele ha diritto di esistere dov’è e che esercita da ottant’anni il diritto all’autodifesa. Poi, accade che Israele esageri, che compia atti illeciti e violenze gratuite; accade che Israele sia governato da incapaci e tromboni.

Allora si condannano gli eccessi e gli errori, si accusano gli incapaci e si zittiscono i tromboni, ma, ancora una volta: condannare la guerra in astratto, gettarsi nella difesa del più debole anche quando ha torto, non serve. Far cessare una guerra significa riconoscerne le responsabilità e abbracciarne la complessità (nel senso autentico di cui ho detto all’inizio), per dire dei e dei no. Anche la parte debole può avere torto, se mette i mitra in mano ai bambini – a meno di non accettare la lotta armata come legittima forma di espressione della propria visione del mondo, come qualcuno tentò di fare in Italia per giustificare gli atti delle Brigate Rosse.

Se neppure un papa si attiene ai già pochi elementi oggettivi della guerra in Palestina, terra natale di Cristo, possiamo lasciare ogni speranza. Oggi, sostenere una lettura del conflitto arabo-israeliano più fedele ai fatti, diversa da quella – piuttosto fantasiosa – gradita al mainstream dei media e della politica, può richiedere molto coraggio, anche per un papa: dov’è finito, il non abbiate paura! di Giovanni Paolo II?

PAPA FRANCESCO: GUERRE E PENSIERO, MIGRAZIONI E FRONTIERE

La migrazione è un altro capitolo sul quale si è levata la voce di Francesco. Sui problemi sociali causati in Europa dalle migrazioni incontrollate, Francesco ha risposto: «La mafia non l’hanno inventata i nigeriani.» Questo è vero, ma non è meno vero che l’idealismo che promuove un mondo senza frontiere ha causato insicurezza in molte città europee, ha indebolito tessuti sociali consolidati e reso invivibili interi quartieri. Aumenta il numero di vittime della criminalità legata ai migranti, ormai così organizzata che non si può più nascondere dietro gli eufemismi del politicamente corretto.

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La Chiesa insiste affinché si abbattano le frontiere: l’unica, vera comunità umana, per la Chiesa, non è lo Stato con i suoi confini, è il popolo di Dio, l’umanità tutta. Lo Stato può essere uno strumento di amministrazione, ma più spesso è un impiccio, con la sua pretesa di laicità. La Chiesa vede lo Stato allo stesso modo dei marxisti, se si sostituisce popolo di Dio con proletari di tutto il mondo. Anche per Marx, lo Stato non è che una sovrastruttura provvisoria, in attesa che tutte le classi subalterne si uniscano nella dittatura del proletariato, che renderà inutile lo Stato borghese. Come si amministreranno il popolo di Dio e i proletari di tutto il mondo, una volta superato lo Stato, né Marx né la Chiesa lo dicono, ma l’esito ce lo indica la Storia: lo Stato etico, che nasce da questa visione, è lo Stato totalitario.

Migrazione e diritti astratti

L’idea cattolica di migrazione senza confini si fonda su un diritto astratto alla migrazione che non esiste e non può esistere, nemmeno nella Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo. Ci sono altri diritti, però, sui quali Francesco è rimasto silente. Questi sì, sono iscritti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, dagli articoli 23 in poi, eppure la Chiesa non li ha mai tematizzati, almeno nel contesto delle migrazioni: ciascun cittadino dovrebbe trovare nel proprio Paese di origine condizioni di lavoro e di vita dignitose, senza dover emigrare, a meno che non lo voglia.

Gli ucraini hanno dovuto subire la «fratellanza» forzata con i russi; i migranti vengono usati per promuovere la Weltanschauung astratta di un mondo senza Stati e senza confini, anziché responsabilizzare i governi di tutto il mondo affinché creino le condizioni per dare ai loro cittadini il necessario, senza costringere uomini e donne ad abbandonare la loro terra e le loro famiglie.

PAPA FRANCESCO: GUERRE E PENSIERO, I POVERI E IL POTERE

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Tra i motti più ricordati di Francesco vi è: «Vorrei una chiesa povera per i poveri.» Alla fine del pontificato, si riconosce la posizione del povero, per Francesco: il povero coincide con il popolo – chi non è povero non è popolo (spiego meglio il perché in >questa analisi). Ci si aspetterebbe, allora una critica ai regimi autoritari, che del popolo calpestano i diritti: invece, Francesco si pone a fianco della Russia zarista e putiniana; in visita in Mongolia ha esaltato nientemeno che la saggezza (?) di Gengis Khan, tra i più distruttivi conquistatori che la Storia ricordi.

E’ la più classica visione cattolica del povero, dell’emarginato: la Chiesa assiste il povero con paternalismo, ma lo lascia com’è. Il papa provvede all’anima dei poveri e l’imperatore li fa giostrare per i suoi scopi. Il potere spirituale e quello temporale si alleano ai danni dei sottoposti. E’ la storia dei Promessi sposi, di Don Abbondio e Don Rodrigo; è la storia dell’Argentina, dove la separazione tra Chiesa e Stato non si è mai compiuta e le curie sono rimaste ingranaggi del potere politico, senza pudori, anche durante le sanguinarie dittature dei generali.

Non si liberano i poveri dell’Africa sostenendo la loro migrazione in massa verso l’Europa, si muta solo lo status della loro povertà; non si libera il «martoriato» popolo ucraino dicendogli di arrendersi all’imperialismo di Putin. La difesa degli «ultimi» non è compatibile con l’occhiolino strizzato ai potenti, anzi ai prepotenti.

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I VALORI DI OGGI, RETORICA DICHIARATIVA

Papa Francesco ha dato voce al mondo di oggi, fatto di valori ridotti a retorica dichiarativa. Dalla «fine del mondo» dalla quale lui stesso disse di essere stato chiamato, il giorno della sua elezione, Bergoglio ha portato davvero i tratti dell’America latina. Il teologo italiano Vito Mancuso, intervistato nelle ore successive alla morte del Papa, ha descritto l’attitudine di Francesco con un efficace neologismo: l’ha definita teopatia, in alternativa alla teologia, la capacità di suscitare empatia intorno a Dio, che scatena sentimenti estremi, dalla sim-patia al suo opposto, l’anti-patia.

Bello!, ma… finito l’abbraccio dell’empatia, bisogna decidere e agire, scegliere tra torti e ragioni, tra i e i no del Vangelo di Matteo: l’impressione è che in Francesco, giunti a questo punto, ci si trovasse sospesi su una specie di vuoto, senza sapere dove andare a parare. Si dice che il Papa non è un politico, perciò non ci si deve attendere da lui indicazioni concrete. E’ una mezza verità, ma se anche si considerasse il pensiero di Francesco come atto non politico, esso resterebbe, sulle crisi internazionali di oggi, un pensiero incompiuto.

E’ incompiuto parlare di migrazione considerando solo i migranti, senza guardare alle conseguenze sui Paesi di arrivo; è incompiuto il pensiero che affronta una guerra, come quella in Ucraina, e si arrende al momento di riconoscerne le responsabilità; è incompiuto il pensiero che lamenta le sorti della Palestina, ma falsifica gli elementi scatenanti del conflitto. E’ incompiuto il pensiero che parla di pace, ma indica vie irrealistiche per raggiungerla. Un pensiero così resta una missione incompiuta, anche se lo si considera solo come puro atto cogitante, senza calarlo nella realtà.

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Papa Francesco e le guerre: il pensiero incompiuto

Papa Francesco e la Russia: guerre e pensiero su Putin

Questo pensiero del Papa resterebbe un atto intellettuale interrotto anche se non diventasse atto politico – e purtroppo lo diventa. Quando Francesco affermava che pace significa disarmo, che l’esigenza di difesa non vuol dire acquistare armi, recitava dei nonsensi che avrebbero causato imbarazzo già se fossero rimasti tra le mura vaticane.

Sono migrati, invece, nelle menti deboli di tanti politici poco responsabili, così ce li ritroviamo proclamati nei parlamenti. La pace non dipende dal traffico di armi: l’umanità faceva la guerra già ai tempi delle cerbottane e dei pentoloni d’olio bollente. La pace presuppone la rimozione dei conflitti che generano la guerra: a questo scopo non servono i sed etiam, i ma anche. Servono i e no, gli aut aut che Francesco ha eluso, finendo col legittimare la prepotenza del più forte.

Non basta sostenere in astratto le ragioni del dialogo, se per quel dialogo non si indicano elementi e obiettivi concreti. Promuovere un dialogo non ammette la rinuncia del chi sono io per giudicare?; presuppone, all’inverso, la responsabilità del giudizio, alla quale un papa non può sottrarsi. Sarà il singolo, nella sua libertà di coscienza, a decidere se sottoporsi o no al giudizio di un capo religioso. La libertà non si gioca nell’assenza di regole e di giudizio, ma nella relazione tra la regola e la condotta individuale: dal e no del Vangelo di Matteo sino al nulla poena sine lege del diritto penale. La determinatezza della norma, non l’assenza di norma, è garanzia di libertà.

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DOPO FRANCESCO: LA SFIDA DEL NUOVO PAPA

La Chiesa eleggerà ora un nuovo papa. Il papato somiglia alla presidenza degli Stati uniti: se gli statunitensi eleggono a governarli un Paperoga uscito da un fumetto, gravato per giunta da carichi giudiziari ormai innumerabili, tutto il mondo lo subirà. Se i cristiani, e in particolare i cattolici, eleggono un papa, questi governerà la Chiesa, ma poi ci siamo noi, che non entriamo nelle chiese, ma che, con Benedetto Croce, non possiamo non dirci cristiani e in ogni angolo delle nostre città, a ogni pagina dei nostri libri di storia, ci imbattiamo nelle tracce della cristianità.

Per questo ottanta percento di europei che non entra nelle chiese, il papa non è maestro di vita e guida della coscienza, ma resta la chiave per interpretare i simboli del cristianesimo che punteggiano la nostra storia. Camminiamo, sorretti da una speranza sempre più flebile, in un tempo minacciato dal ritorno della guerra e della dittatura, più di quanto le nostre generazioni, nate nel Dopoguerra, abbiano mai vissuto.

Abitiamo un Occidente afflitto da una perdita d’identità che confonde, in cui il concetto stesso di identità è stato lasciato in esclusiva a urlatori inguardabili, dai Trump agli Orbán, dai JD Vance ai Salvini, dalle Le Pen alle Alice Weidel, sino al campione di tutti, Vladimir Putin. Nei loro discorsi, l’identità, anche quella cristiana, diventa scettro del potere. Manca poco, anzi nulla, a ritrovare nelle loro farneticazioni il ritorno del Gott mit uns (Dio è con noi) di Adolf Hitler.

Cosa attendersi dal nuovo pontefice

Cosa aspettarsi dal prossimo papa? Provo a spiegarlo con un esempio. Nelle scorse settimane, più di 500 persone, musulmane e cristiane insieme, hanno festeggiato la fine del Ramadan nella chiesa di San Giovanni Battista, nel quartiere Molenbeek di Bruxelles. Si può solo salutare, che l’Europa abbia raggiunto un grado di libertà che permette a ogni religione di celebrare le proprie feste in pubblico; nulla si può eccepire, contro la promozione del dialogo tra le religioni, celebrando insieme una festa.

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Molto resta da chiedersi, invece, sul fatto che si trasformi una chiesa in un enorme refettorio, a maggior ragione per celebrarvi un evento non cristiano. Accetteremmo che il Mausoleo delle Fosse Ardeatine, in Italia, venisse trasformato in un campeggio, che vi venisse celebrato qualcosa di diverso dalla memoria dei caduti dell’eccidio che macchiò quel luogo? Accetteremmo che la fortezza della Wartburg, testimonianza unica di storia tedesca, fosse trasformata in una sala da ballo, o destinata a qualunque uso che contrasti con quei valori? Non credo che lo accetteremmo. Una chiesa non è un salone multifunzionale; un mausoleo non è un luogo di ritrovo; una fortezza millenaria non è un incrocio qualunque di mura.

I nuovi tribuni dell’Occidente

Una chiesa, un luogo della memoria collettiva, un monumento storico sono presenze vive, cariche di una forza simbolica che costituisce delle identità. L’ascesa dei tribuni che oggi minacciano di riportare indietro l’orologio della Storia nasce in gran parte dalla delusione verso una società che si è convinta di accogliere le identità diverse decostruendo la propria, appannando i suoi simboli. Si è dimenticato che accogliere l’altro è possibile solo a partire da un’identità forte, poiché lo scontro fra identità non consapevoli di se stesse non abbatte il razzismo, ma genera l’odio per il diverso.

La reazione alla quale stiamo assistendo, da parte di popolazioni confuse e rabbiose, che votano a governarle, dall’Europa agli Stati uniti, dirigenti senza arte né parte, può diventare peggiore del male. E’ la rivolta contro chi per troppo tempo non ha saputo pronunciare i e i no, gli aut aut che segnano i limiti della nostra identità. Ne è nata una società fatta di identità scontornate, di simboli scoloriti. Oggi, questa società pone problemi che i suoi creatori non sanno risolvere, spesso rifiutano addirittura di riconoscerli.

Salvando questi limiti, il nuovo papa dovrà impedire che la religione torni a farsi alibi delle dittature e la Chiesa un loro strumento, come lo fu nel Novecento per il fascismo, per il nazismo e persino per il comunismo, in America latina, dove la Chiesa riuscì a farsi spalla delle dittature nazionaliste e, allo stesso tempo, del loro opposto, dei regimi marxisti-leninisti, dei quali non disprezzava il garrulo appello alla «liberazione.» Una liberazione, però, nella quale c’era solo il passaggio da una schiavitù a un’altra.

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Oltre la retorica dell’empatia

Di fronte alla chiesa di Molenbeek trasformata in refettorio, esempio dei tanti simboli della nostra identità che amiamo abbattere con le nostre mani, il prossimo papa dovrà trovare argomenti che giustifichino il a una tale scelta, senza limitarsi alla stanca retorica dell’empatia e dell’integrazione. Se riuscirà a giustificare la decostruzione del simbolo, da chiesa a sala da pranzo, dirà , e, se lo farà in modo convincente, sarà libertà dei singoli accettare o meno la sua spiegazione; se non ci riuscirà, dovrà dire no e il fatto non dovrà essere ripetuto. Una sola cosa, non potrà fare: chiamarsi fuori con un: chi sono io per giudicare?

Homo viator spe erectus: l’Uomo in cammino è sorretto dalla speranza, dice un’antica saggezza. L’Europa, oggi, deve ritrovare in fretta il cammino dei suoi valori, mentre i suoi dirigenti farfugliano, in un mondo dove anche gli alleati si squagliano, lasciando a noi il cerino acceso dei conflitti che ci minacciano, non solo quelli militari. Il nuovo papa dovrà contribuire a far risuonare le corde di quella speranza, molto oltre i confini della sua Chiesa.

Dovrà ammonire tutti che, finito il tempo dell’empatia, comincia quello della responsabilità, dei e dei no, degli aut aut; che è finito il tempo dei sed etiam, dei ma anche. Se non ci riuscirà, non ci resterà che chiedere, con Simon Pietro: Domine, ad quem ibimus? – Signore, da chi andremo? (Gv 6,70).

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Luca Lovisolo

Lavoro come ricercatore indipendente in diritto e relazioni internazionali. Il mio corso «Capire l'attualità internazionale» accompagna chi desidera comprendere meglio i fatti del mondo. Con il corso «Il diritto per tradurre» comunico le competenze giuridiche necessarie per tradurre testi legali da o verso la lingua italiana.

Commenti

  1. Mario Piovesan says:

    Grazìe, un articolo magistrale il Suo e addirittura più cristiano di altri da fonti confessionali. Da tempo credo che siamo afflitti da un analfabetismo valoriale e morale che ci fa incerti delle nostre identità. Società che sembrano popolate di adolescenti che indugiano a determinarsi adulti trovando la forza del giudizio, di pronunciare quei sì e quei no di cui Lei parla. Francesco forse è stato l’interprete esemplare di una condizione diffusa di un’umanità numerosa che in queste ore gli rende infatti omaggio.

    • Luca Lovisolo says:

      Grazie per il Suo commento. Purtroppo si è diffusa la credenza che l’apertura al mondo, legata alla globalizzazione e al progresso tecnologico, richieda l’indebolimento delle proprie radici, per aprirsi al nuovo e al diverso. E’ l’esatto contrario: se non si parte da radici salde, si viene travolti. Anche la Chiesa è caduta in questo inganno. Vedremo quale strada prenderà il successore di Francesco. Cordiali saluti.

  2. Elena Borsa says:

    Buongiorno Luca.

    Devo dire che, pur essendo d’accordo con te su molto di quello che dici, in specie sull’Ucraina (come non essere d’accordo con i fatti?), sono rimasta un po’ sorpresa dalle argomentazioni che hai utilizzato per esprimere il tuo pensiero.

    Giustamente parli di complessità come di una condizione nella quale occorre tenere presenti numerosi fattori prima di esprimere un giudizio. Non sempre è semplice arrivare alle conclusioni proprio perché a volte (non sempre per fortuna!) ci si trova a tentare di comprendere realtà talmente complesse che le sole competenze individuali non sono più sufficienti: da sempre la conoscenza, intesa come comprensione del reale, nella specie umana è distribuita, perché nessuno può conoscere tutto e con la necessaria profondità. Per questo oggi si parla sempre più spesso di interdisciplinarietà e addirittura di transdisciplinarità (mi pare, se sbaglio correggimi, che la tua materia abbia un profilo fortemente transdisciplinare).

    Mi sono dunque stupita delle tue osservazioni sulla decostruzione: se non eccede nella cosiddetta «deriva degli interpretanti», a mio parere la decostruzione è un ottimo approccio per cogliere proprio la complessità di cui aprli e produrre nuova conoscenza. Non ha nulla a che vedere con il relativismo, è piuttosto un approccio critico ai testi che cerca di trovare le crepe, le dissonanze nel senso comune (che poi spesso in realtà tanto comune non è); questo vale particolarmente nella definizione di concetti astratti e concetti-ombrello, il cui significato pensiamo di conoscere ma che, quando cerchiamo di esplicitare o addirittura di mettere in pratica, spesso ci sfugge, soprattutto quando è decontestualizzato. La società muta con il tempo, e con essa mutano il significato e il senso che diamo alle parole, in specie quelle che strutturano i valori di una comunità (Patria, Giustizia, Pace, Democrazia, Ragione…).

    A proposito di ragione e razionalità, bene ha fatto Mancuso, persona di grande cultura e sensibilità, che non lesinava certo critiche al Papa, a definire Bergoglio «un profeta» (di certo non era né un teologo né un canonista!), uno che «parla davanti,» che ha «patito Dio;» questa componente profondamente emotiva di Bergoglio è proprio all’origine dell’empatia di cui tu parli, che lungi dall’essere un limite, è proprio la cifra del suo pontificato. Ogni papa nasce in una storia e in una cultura, e il suo operato è espressione di quella storia e cultura: l’empatia non è né simpatia né antipatia, è semplicemente mettersi nei panni dell’altro, sentire quello che sente l’altro, che è forse la più straordinaria abilità della specie umana, alleata peraltro della ragione, che da sola non basta a descrivere il mondo.

    Con stima.
    Elena

    • Luca Lovisolo says:

      Ciao Elena,

      Grazie per il tuo articolato commento. Sono d’accordo con le tue considerazioni sulla decostruzione. Ciò che intendo qui è quando si coglie a pretesto la decostruzione per estendere all’infinito le interpretazioni, sinché non resta che il mero arbitrio interpretativo, che certo non era nello spirito che animava Derrida. Mi accorgo di non aver spiegato con sufficiente chiarezza nell’articolo che non mi riferisco alla decostruzione per sé, ma, per l’appunto, agli eccessi che la spingono oltre le sue intenzioni e che mi sembrano diventati piuttosto frequenti, almeno nelle ricadute pratiche. Ormai, sembra che parole, simboli e segni in genere vengano associati per significare qualunque cosa, a fini mutevoli secondo l’opportunità, per il mero gusto (o comodo) di mettere in discussione all’infinito categorie e concetti consolidati per i quali, invece, sentiamo il bisogno di stabilità. Provo a rendere più chiaro quel passaggio, in ogni caso il tuo commento aiuterà chi legge a capire meglio ciò che intendo.

      Quanto al rimbalzo tra empatia, simpatia e antipatia, è di Mancuso stesso: nel suo intervento (non ero a casa mia quando è stato trasmesso e non saprei ritrovarne la fonte, ma lo ricordo con esattezza), affermava che l’empatia di Francesco poteva indurre a una forte simpatia per il suo messaggio e, all’opposto, una radicale antipatia. Così è anche stato, del resto, all’interno della stessa Chiesa.

      Concordo che l’empatia non è, per sé, un limite. Forse la Chiesa (e non solo essa) viene da tempi in cui l’empatia scarseggiava, soverchiata dalla durezza della dottrina. Non dubito che Francesco abbia fatto ciò che sentiva, ponendola al centro della sua missione – anche se non sempre ci è riuscito, come nei casi che cito, anzi si è pesantemente contraddetto, in particolare per la questione ucraina. Ciò che intendo dire è che se all’empatia non segue un pensiero raziocinante, forse meno caldo e affascinante ma indispensabile per cogliere la realtà – e magari per risolvere qualche problema concreto – giungiamo a una situazione in cui ci illudiamo di risolvere tutto con l’immedesimazione nei panni dell’altro, con la «solidarietà» oggi tanto di moda (in genere più nelle parole che nei fatti, le virgolette non sono casuali). La componente empatica, credo, è solo il primo passo: se si vuole lasciare una traccia che sopravviva al calore degli abbracci, bisogna passare oltre. Quest’alleanza fra empatia e ragione, come la chiami tu con efficacia, mi è sembrata in Francesco alquanto sbilanciata verso la prima, lasciando penzolare la seconda del tutto o quasi nel vuoto. In questo, ne sono convinto anch’io, Francesco è stato espressione piena del nostro tempo.

      Un caro saluto
      Luca

  3. Giovanna Rinaldi says:

    Gentile Luca,

    Questo suo articolo, che ho letto più e più volte, mi ha colpito perché illustra con coraggio alcune caratteristiche del nostro tempo che si preferirebbe ignorare. Mi ha ricordato un articolo di Ross Douthat pubblicato recentemente sul New York Times. L’autore descrive l’appiattimento umano e l’incapacità di esprimere giudizi fondati – aspetti tipici dell’era digitale, che ha sostituito contenuti complessi con altri velocemente fruibili ma futili, superficiali. L’articolo termina citando un passo del Deuteronomio, con l’invito a riappropriarsi in modo consapevole della dimensione umana, a «scegliere la vita.»

    Sono gli stessi concetti che esprime Lei e che noi tutti preferiremmo ignorare: proprio perché, purtroppo, ci siamo dentro. La banalità sostituisce la complessità, gli estremismi prendono il posto dei giudizi ponderati, i luoghi comuni astratti rimpiazzano le radici della nostra identità.

    Come mette giustamente in luce, l’ultimo pontefice è stato uno specchio di questi tempi. Lo hanno dimostrato l’esitazione nel prendere posizione, i concetti astratti, il mettere tutto sullo stesso piano, ignorando i fatti (e la Storia), l’ammirazione nemmeno troppo nascosta per certi regimi (e qui c’è poco da interpretare, ci sono le sue parole nero su bianco). Decostruire, nel pensiero che fa capo a Jacques Derrida, vuol dire smontare il significato univoco nelle sue infinite possibilità. Una commentatrice più sopra osserva giustamente che è un’operazione indispensabile per “ricollocare” concetti che, col mutare del tempo, diventano vuoti. Bisogna però fare molta attenzione ad applicare questo approccio ai fatti storici o, per esempio, a pilastri come i diritti umani: il rischio è la deriva verso gli estremismi di cui leggiamo ogni giorno.

    Il discorso sull’empatia mi richiama alla mente due pensieri, secondo me molto efficaci per distinguere quella astratta, ambigua, da quella autentica e profonda, che nasce dalla vera comprensione. Il primo pensiero riguarda il passo biblico dei Corinzi: «Anche se distribuissi tutte le mie facoltà per nutrire i poveri e dessi il mio corpo a essere arso, se non ho amore, non mi gioverebbe a niente.» Il secondo pensiero va alle antichissime filosofie orientali che ci parlano dell’intelligenza del cuore, intesa come visione nitida, non offuscata – una qualità talvolta descritta con queste parole: il cuore non è sentimentale.

    Un caro saluto
    Giovanna

    • Luca Lovisolo says:

      Gentile Giovanna,

      Grazie per le Sue attente considerazioni. Certo, il mondo digitale non fa che portare all’estremo le tendenze che osserviamo. Sta a noi usarlo in modo adeguato, forse non abbiamo ancora imparato del tutto a coglierne le vere potenzialità e ci fermiamo alla superficie, all’uso più comodo.

      «Scegliere la vita» mi fa tornare in mente il medico, organista e missionario alsaziano Albert Schweitzer, Premio Nobel per la pace nel 1952: assunse a guida della sua vita e opera un motto che, tradotto in italiano, suona: «Rispetto per la vita» – in tedesco: «Ehrfurcht vor dem Leben» – Sappiamo entrambi che dietro quell’Ehrfurcht c’è più di un rispetto, c’è un timore misto a rispetto e venerazione per qualcosa che sta dietro la parola «vita» ed è più del semplice vivere biologico. Penso, intanto, a tutte le distorsioni che la parola «vita» ha subito nei vari slogan «pro-vita» e simili, facendosi portatrice, a volte, di valori esattamente opposti o quanto meno marginali e opportunisti rispetto alla sua essenza.

      Il problema della decostruzione è proprio questo: concordo con la lettrice che ha commentato sopra, la decostruzione nell’intento di Derrida andava esattamente nella direzione opposta, chiarire concetti e linguaggi che hanno perso la loro nettezza. Come osserva Lei, e vediamo tutti i giorni, se applicata fuori luogo o spinta oltre i limiti del necessario, il processo di decostruzione diventa una trappola che svuota di senso i concetti, anziché depurarli. Forse, anche l’empatia avrebbe bisogno di essere decostruita – nel senso buono di Derrida, intendo – tanto ha perso di determinatezza, nel fragore contemporaneo.

      Grazie per la Sua attenzione e cordiali saluti.
      Luca

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Luca Lovisolo

Lavoro come ricercatore indipendente in diritto e relazioni internazionali. Con le mie analisi e i miei corsi accompagno a comprendere l'attualità globale chi vive e lavora in contesti internazionali.

Tengo corsi di traduzione giuridica rivolti a chi traduce, da o verso la lingua italiana, i testi legali utilizzati nelle relazioni internazionali fra persone, imprese e organi di giustizia.

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