
Israele e USA contro Iran: analisi dello scenario che sorge dopo gli ultimi eventi. La questione del rispetto del diritto internazionale. Il principio di autodifesa. La comparazione con la guerra di George Bush figlio in Iraq nel 2003. L’accordo sul nucleare iraniano del 2015 e il ritiro degli Stati uniti voluto dalla prima amministrazione Trump. Le minacce per l’Europa e la rappresentazione di questo scenario nei media.
I fatti recenti tra Israele e Iran hanno suscitato molta attenzione. Riprendo in questa analisi i miei interventi pubblicati nei giorni scorsi, con numerose integrazioni e precisazioni suggerite dai dagli eventi sopravvenuti. Tratto la questione del >diritto internazionale rispetto agli attacchi sull’Iran; il parallelo, avanzato da molti, con la >guerra in Iraq del 2003 e la questione >dell’accordo del 2015 cosiddetto «sul nucleare iraniano.» Proseguo l’analisi con la relazione tra gli eventi in corso e i >Paesi arabi della regione, il ruolo di Benjamin Netanyahu e la posizione degli >Stati uniti. Nelle >conclusioni riporto considerazioni sulle minacce per l’Europa e la rappresentazione dei fatti che viene data dai media e dalla politica, o almeno da parti rilevanti di essi.
ISRAELE, USA, IRAN E DIRITTO INTERNAZIONALE: L’ANALISI
Israele e gli Stati uniti hanno violato il diritto internazionale con una difesa preventiva contro l’Iran? Tre fatti contraddicono questa affermazione. 1) L’Iran determina e supporta l’azione di gruppi paramilitari e terroristici (Hamas, Hezbollah, Houti) che aggrediscono già materialmente Israele: agisce perciò in concorso morale e materiale in tali aggressioni; 2) Israele e gli Stati uniti stanno attaccando obiettivi militari o civili a uso militare: gli attacchi possono produrre vittime civili collaterali, spiacevoli ma ammesse; sarebbe invece censurabile l’attacco deliberato contro obiettivi civili senza finalità belliche; 3) Israele si tutela rispetto a una minaccia esistenziale, l’arma nucleare iraniana: in questo caso, la difesa preventiva è ammessa secondo la cosiddetta «formula Caroline» (1837).
Vero che l’esposizione degli Stati uniti alla minaccia iraniana è meno diretta, rispetto a Israele. Tuttavia, non bisogna dimenticare che le condotte dell’Iran costituiscono già oggi un pericolo concreto oltre la regione mediorientale. L’arma nucleare in mano a un regime teocratico e privo di controlli interni rappresenta una minaccia globale; inoltre, i gruppi paramilitari determinati ad agire dall’Iran non minacciano solo Israele.
Infine, indipendentemente dallo sviluppo dell’uranio arricchito e di un ordigno nucleare classico, il solo possesso di materiali radioattivi, anche senza esplosione a fissione nucleare, è fonte di grave pericolo, a maggior ragione dinanzi alla possibilità che tali materiali terminino nella disponibilità di gruppi terroristici internazionali. Un attentato compiuto con tali mezzi avrebbe conseguenze tali da far impallidire gli attacchi del 2015 al Bataclan o allo Stade de France. E’ imperativo impedire che teocrazie e formazioni paramilitari non statali entrino in possesso di simili capacità offensive.
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Sarebbe stato meglio agire in coalizione?
L’analisi può suggerire che Israele e USA avrebbero dovuto agire contro l’Iran in una coalizione internazionale, poiché la minaccia è globale. A questa ipotesi si oppongono alcuni fatti oggettivi. La formazione di tale coalizione avrebbe richiesto tempo e non è chiaro chi avrebbe accettato di prendervi parte, nel clima di indecisione che indebolisce l’Occidente. Non si vede neppure come altri Paesi avrebbero potuto sostenere l’azione: a oggi, gli Stati uniti sono l’unica potenza in grado di compiere attacchi tali da far cessare o compromettere a lungo il programma nucleare iraniano.
Vero che il diritto all’autodifesa di uno Stato presuppone un’aggressione materiale da parte di un altro. Tuttavia, se non fosse possibile fare eccezione al principio di materialità dell’offesa, ne sarebbe contraddetta la ratio stessa dell’istituto dell’autodifesa. In presenza di una minaccia esistenziale, si permetterebbe allo Stato minacciato di difendersi solo dopo essere stato annientato dall’aggressore. Con l’arma nucleare, questo scenario è realistico.
I fatti in corso impongono di ripensare l’applicazione di alcuni principi del diritto internazionale. Sino a pochi decenni or sono, l’arma nucleare non esisteva; poi, è stata a lungo appannaggio di poche potenze che agivano secondo principi condivisi, almeno in parte sufficiente a garantire fiducia reciproca. E’ recentissimo, invece, che Stati dalle condotte imprevedibili, gruppi terroristici ed eserciti non statali possano dotarsi di armi di distruzione di massa e diventare minacce esistenziali per il resto del pianeta.
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L’applicazione concreta del diritto internazionale
In questi casi, nell’applicare le norme si deve restare fedeli al loro scopo sociale. Il diritto all’autodifesa degli Stati, nel diritto internazionale, funziona in modo analogo alla legittima difesa nel diritto penale. Quest’ultima giustifica chi respinge un’aggressione o la minaccia di un’aggressione imminente e agisce perciò per difendere un diritto, proprio o altrui, da un pericolo attuale di un’offesa. Ciò vale a maggior ragione se la minaccia è esistenziale, cioè mette in pericolo la vita dell’aggredito – nel nostro caso, l’esistenza di uno Stato.
Vi sono pochi dubbi che impedire lo sviluppo di armi nucleari in un Paese che minaccia da decenni i propri vicini e la comunità internazionale, anche alimentando gruppi terroristici e paramilitari in piena attività, corrisponda alle finalità dell’istituto dell’autodifesa. Ciò anche se le norme di dettaglio esistenti sono sorte in momenti storici nei quali queste minacce non erano neppure pensabili. La difesa deve avvenire in modo adeguato alle circostanze ed essere proporzionata all’offesa. L’analisi degli eventi conferma che Israele e USA, infatti, stanno agendo contro l’Iran colpendo i centri del programma nucleare iraniano, benché tali attacchi possano generare danni e vittime collaterali.
D’altra parte, attendere ad agire in attesa di altri sviluppi avrebbe comportato rischi. Attaccare l’Iran quando avesse già realizzato un ordigno nucleare sarebbe stato ancora più rischioso sul piano militare e impraticabile su quello politico. Si deve intervenire dopo aver raccolto le prove dello sviluppo nucleare a fini bellici, ma prima che tale sviluppo permetta la costruzione di un ordigno a fissione – cioè adesso. E’ lecito chiedersi quali conseguenze avrà ora l’attacco. In realtà, bisognerebbe piuttosto domandarsi: quali alternative concrete esistono? Nessuna. Le conseguenze, inclusa la minacciata chiusura dello Stretto di Hormutz, si affronteranno.
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ISRAELE, USA, IRAN: SE LE PROVE FOSSERO FALSE? L’ANALISI
Vi è chi ritiene che le prove dell’attività nucleare dell’Iran potrebbero essere false, come fu per l’Iraq nel 2003. Tuttavia, i due scenari non sono comparabili. Nel 2003 l’Iraq fu attaccato argomentando che possedesse armi di distruzione di massa, tesi poi dimostratasi falsa. Le prove apparvero subito deboli e gli Stati uniti faticarono molto a convincere i loro alleati e le Nazioni unite della solidità delle loro accuse. Inoltre, il grado di pericolosità globale dell’Iraq non era paragonabile a quello dell’Iran oggi, benché il regime iracheno fosse abominevole.
Oggi, al contrario, le prove dello sviluppo nucleare in Iran sono fornite dalle stesse Nazioni unite, attraverso l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA), e poggiano su uno storico pluridecennale. Vi sono poi le osservazioni dei servizi segreti e di Stati della regione, anche non amichevoli verso Israele, che tuttavia stanno cooperando con discrezione alle azioni dello Stato ebraico contro il programma nucleare iraniano, che è minaccia comune.
L’Iran non è ancora in grado di realizzare un ordigno atomico, lo ha ribadito la stessa IAEA. Il problema, però, non è che l’Iran costruisca una bomba come quelle di Hiroshima e Nagasaki. Il problema è che l’Iran ha già arricchito quantità consistenti di uranio e deve essere fermato tempestivamente, non solo nell’interesse di Israele. Chi nega questa circostanza deve produrre prove più convincenti di quelle affermative dell’IAEA, o è fuori dal dibattito. Per l’uranio così arricchito non esistono impieghi civili, se non in casi particolarissimi non alla portata dell’Iran. Non vi è dubbio che l’attività dell’Iran persegua finalità militari: chi sostiene il contrario si ridicolizza.
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Altri stati inaffidabili dispongono di armi nucleari
Vero, ma questo non è un buon motivo per accettare che se ne aggiunga un altro. Inoltre, la combinazione tra pericolosità del regime, intrecci terroristici e capacità nucleari in Iran è un unicum e non deve riprodursi. Nessuno Stato può decidere da solo di dotarsi di un’arma nucleare. Esistono numerosi accordi internazionali contro il proliferare di tali ordigni fatali, non solo il più noto Trattato di non proliferazione nucleare (1970) – trattato che l’Iran, d’altra parte, ha firmato.
Ogni nuovo armamento o estensione degli arsenali esistenti che esca da tale quadro giuridico o è illecito o presuppone la denuncia o modifica dei trattati, con le conseguenze del caso. L’orientamento della comunità internazionale verso la non proliferazione nucleare è chiaro. Anche i pochi Paesi che non hanno sottoscritto gli accordi non possono agire ignorando tale orientamento globale. Il possesso dell’arma nucleare non è un diritto nascente da un principio generale di equità («se ce l’ha Tizio ha diritto di averla anche Caio»): è regolato da norme che tutelano la sicurezza collettiva.
Ciò vale vieppiù per Stati privi di meccanismi interni di controllo: gli Stati non sono tutti uguali, l’arma nucleare in mano a un regime dittatoriale è cosa diversa dalla stessa arma in mano a un regime democratico. Sarebbe certo desiderabile che tutti i Paesi, incluso Israele, rinunciassero all’arma nucleare. Per giungere a questo risultato è semmai utile cercare di estendere gli accordi di non proliferazione e controllo ai Paesi che ancora non li hanno firmati, anziché consentire a quelli che lo hanno fatto, come l’Iran, di violarli.
Israele e USA contro l’Iran, l’analisi: Teheran rispettava l’accordo del 2015?
La questione è legittima, ma è mal posta. Rispettato o no, l’accordo cosiddetto «sul nucleare iraniano» (JCPOA, 2015) non produceva la rinuncia definitiva dell’Iran all’armamento nucleare. I controlli non garantivano che lo sviluppo non potesse continuare in segreto e, rimuovendo subito le sanzioni, l’accordo forniva all’Iran nuovi mezzi per proseguirlo. l’Iran sembra aver rispettato l’accordo, anche se in realtà non sappiamo cosa sia successo davvero dietro le quinte, nei tre anni di applicazione. Recedere dall’accordo nel 2018 fu comunque una mossa poco lungimirante, da parte della prima amministrazione Trump. Qualche possibilità di controllo sulle attività iraniane l’accordo l’aveva ottenuta.
L’accordo, in astratto, era un apprezzabile atto politico di apertura verso la dirigenza iraniana, ma, comunque lo si giudichi, soffriva di una contraddizione strutturale: si fondava sulla convinzione che un quadro negoziale razionale, fondato sull’equilibrio di interessi, funzioni anche con regimi che non agiscono secondo la razionalità tipica del diritto positivo occidentale. In Occidente fatichiamo a capire che con Paesi che hanno retroterra culturali così diversi, dove vigono le logiche non lineari dell’integralismo religioso o ideologico, non è possibile applicare le logiche lineari e utilitaristiche occidentali. I fallimenti dell’Occidente in Afghanistan – come pure quello dell’Unione sovietica – sono un altro, triste esempio di questa miopia.
Gli attacchi di questi giorni non chiudono la via a un accordo diplomatico. Un accordo, però, esige omogeneità di valori e obiettivi tra le parti. E’ inutile tentare un approccio rational choice in una situazione di totale squilibrio di valori. In questi casi gli accordi non sono impossibili, ma devono essere coperti da un’adeguata forza militare pronta all’uso, se necessario. E’ la ragione per la quale su tali scenari l’Europa non ha forza negoziale, perché non ha forza militare unitaria.
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ISRAELE, USA, IRAN: I PAESI ARABI E GLI USA, L’ANALISI
Premesso che gli iraniani, benché musulmani, non sono arabi, l’Iran è una minaccia anche per il mondo arabo. I Paesi arabi non prendono posizione pubblica a favore degli attacchi di Israele e degli Stati uniti, ma non ne sono scontenti. Riconoscono che la minaccia per la sicurezza regionale non è Israele, sono l’Iran le fasce estremiste arabe da esso alimentate.
Più Paesi arabi hanno firmato di recente accordi di cooperazione con Israele (detti «Accordi di Abramo») e isolato così le componenti estremiste. Una di queste, Hamas, ha lanciato l’attacco del 7 ottobre 2023 contro Israele proprio per evitare che anche l’Arabia saudita firmasse, di lì a poco, un accordo analogo. La firma avrebbe comportato l’emarginazione di Hamas, con un avvio di soluzione della «questione palestinese.»
Quanto alla politica interna israeliana, per quanto è possibile dire qui: i limiti di Benjamin Netanyahu come politico e dei suoi alleati di estrema destra sono noti. Da militare, impegnato sin da giovanissimo nell’esercito, Netanyahu dimostra però di saper colpire. Grazie agli interventi di Israele contro Hezbollah, il Libano sta recuperando dopo decenni capacità politica e sovranità; gli attacchi israeliani e degli Stati uniti sullo Yemen hanno depotenziato gli Houti. Le distruzioni a Gaza impressionano e, se ingiustificate, andranno sanzionate; intanto, però, Hamas non spara più missili e perde presa politica.
Nessuno ha saputo dire sinora cosa Israele avrebbe potuto fare di diverso a Gaza, trasformata da Hamas in una santabarbara. Vedremo ora cosa mostrerà di saper fare Netanyahu con l’Iran, distinguendo il giudizio politico da quello militare.
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Israele contro Iran: analisi della posizione USA
I negoziati voluti da Donald Trump sul nucleare iraniano, come quelli sull’Ucraina, stanno dimostrando l’inconcludenza dell’amministrazione statunitense, guidata da persone prive delle nozioni più elementari per agire su scenari di tale gravità. Trump sembra capace solo di rinviare le decisioni, forse dilaniato da contrasti interni al suo governo. E’ possibile che Trump si stia accorgendo che la grandezza degli Stati uniti si costruisce anche agendo su scenari lontani dalla porta di casa. In realtà, è forte l’impressione che a determinare le sue azioni sul capitolo mediorientale siano altri, forse nella sua cerchia familiare. Trump non sembra disporre degli elementi necessari per prendere decisioni consapevoli su uno scenario così complesso.
Alla fine, Trump ha deciso l’attacco contro l’Iran. Ha contraddetto la promessa elettorale di non coinvolgere gli Stati uniti in un’altra guerra lontana. L’attacco all’Iran era necessario: è spiacevole che debba essere condotto dall’amministrazione statunitense più squinternata della storia recente, forse di sempre. Un ministro della difesa ex presentatore televisivo, un ministro degli esteri che dopo cinque mesi non ha ancora dato segno della propria esistenza e un capo in testa sul quale non servono commenti. Bisogna augurarsi che le decisioni operative siano in mano a dirigenti militari e ministeriali competenti.
Vi è un dato che deve preoccupare Israele e anche noi europei. Tanto Israele quanto l’Europa non sono in grado di compiere azioni militari risolutive per la loro sicurezza, senza il supporto degli Stati uniti. Sin quando gli interessi strategici tra le due sponde dell’Atlantico coincidevano, il tandem funzionava; da quando gli Stati uniti sbandano sempre di più verso l’autoritarismo e le alleanze non tradizionali, occorre ricreare con urgenza una capacità autonoma di difesa e decisione.
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ISRAELE E USA CONTRO IRAN: ANALISI E CONCLUSIONI
Missili iraniani sono in grado già oggi di raggiungere il Sud Europa. Se gruppi paramilitari mediorientali assumessero il controllo di Stati deboli o fallendi del Nord Africa o del Sahel, potrebbero colpire l’Europa in profondità. Lo scenario è tutt’altro che ipotetico, ma tanto la politica quanto le opinioni pubbliche europee vi guardano con colpevole noncuranza. Molte voci affermano che Israele e gli Stati uniti tentano di indurre un cambio di regime a Teheran. Lo storno delle capacità nucleari dell’Iran e il cambio di regime sono questioni distinte sul piano fattuale e su quello giuridico. Occorre attendere gli eventi. Anche su questo capitolo, le comparazioni con l’Iraq del 2003 sono improprie. Inoltre, mentre gli attacchi contro le infrastrutture nucleari rientrano nel diritto di autodifesa, indurre un cambio di regime sarebbe un atto illecito.
E’ molto difficile sapere ciò che accade realmente in Iran. Intervistare i rifugiati in Occidente non basta: conoscono il loro Paese meglio di altri, ma pochi hanno capacità analitiche professionali. In Germania, Francia e Inghilterra vi sono apprezzati giornalisti di origine iraniana, ma non tutti hanno la necessaria lucidità di giudizio. Inoltre, consapevoli dei rischi che corrono, da tempo non tornano in Iran.
I rischi e le difficoltà di chi si avvicina all’Iran
Per diventare esperti di Iran come giornalisti o ricercatori occidentali è necessario conoscere la lingua e la cultura del Paese, averne penetrato a fondo la società e la politica, conoscerne i luoghi. E’ un lavoro che richiede decenni e che nessun social network può sostituire. Chi, in Occidente, conosce davvero all’interno l’Iran e la sua situazione attuale evita di recarvisi per fare ricerca o giornalismo, sapendo che sarebbe facile preda di un governo affamato di ostaggi da usare come merce di scambio contro i governi occidentali. I maggiori media di Europa e Stati uniti hanno ridotto all’osso o chiuso i loro uffici di corrispondenza a Teheran.
Nemmeno i turisti sono al riparo da rischi. Un ciclista tedesco è stato arrestato in questi ultimi giorni con l’accusa di spionaggio, altri cittadini occidentali o con doppia cittadinanza dimorano in carcere in condizioni penose. Il regime teocratico iraniano è al potere da oltre di 40 anni. E’ vero che i media possono dare raffigurazioni migliorative o peggiorative di un Paese, a dipendenza delle loro preferenze politiche; eppure, dopo oltre quattro decenni, si può affermare che le condizioni di vita in Iran sono ben note.
Tuttavia, queste non devono influenzare l’analisi della condotta internazionale del Paese, che non richiede necessariamente la conoscenza in dettaglio delle condizioni di vita interne. La condotta esterna di un Paese deve essere valutata per sé stessa, sotto il profilo giuridico e fattuale. Quand’anche si scoprisse che l’esistenza degli iraniani è migliore o peggiore di quanto noi crediamo, ciò non muterebbe il giudizio sulle relazioni internazionali del Paese. E’ bene lasciare il racconto delle condizioni interne dell’Iran ai sempre più pochi che dispongono degli elementi di merito e di metodo necessari allo scopo.
Israele e USA contro Iran: non solo analisi soggettive
Lo scenario del conflitto tra Israele e Iran offre elementi oggettivi tali da ridurre al minimo le possibilità di valutazioni soggettive. Eppure, vi sono parti del dibattito pubblico europeo che perseverano nel dare di questa nuova guerra, come delle vicende mediorientali in generale, letture irreali, persino protettive degli attori più violenti e ostili per tutti.
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Vi sono, non solo ma particolarmente in Italia, commentatrici e commentatori che negli anni recenti hanno collezionato imbarazzanti fallimenti, nel commentare l’andamento dei più pericolosi scenari internazionali. Eppure, continuano a essere ospiti fissi di programmi televisivi seguiti da milioni di telespettatori. Offrono visioni edulcorate dei contesti esistenti, prive di basi oggettive e quasi sempre frutto di mera elaborazione personale. E’ difficile credere che la scelta dei commentatori, su taluni media, sia orientata alla loro adeguatezza.
Le minacce sono presenti, eppure ignorate o sottovalutate
E’ spiacevole e inadeguato che gli scenari internazionali più minacciosi siano rappresentati dai media e dalla politica come lontani, quasi riguardassero altri. Rispetto alle minacce provenienti dall’Iran e dai suoi correlati, l’Europa non è in una posizione molto migliore di quella di Israele; in più, è esposta alle azioni ostili della Russia. Le minacce non si stornano nascondendole dietro fiumi di parole e pensieri senza né capo né coda.
Vi è chi sino a ieri ha difeso la lotta delle donne iraniane per la libertà, ma oggi si erge a fiera difesa del regime che le opprime. Tra questi si trovano anche persone laureate o di buon livello di formazione, eppure prive degli elementi che permetterebbero loro di riconoscere le proprie contraddizioni. «Sono contro il regime iraniano ma anche contro gli attacchi di Israele e degli Stati uniti» – Questa posizione è diffusissima, presso l’opinione pubblica europea. E’ un nonsenso che può pronunciare solo chi, credendosi estraneo alla minaccia che pende sulla sua testa, si abbandona a un idealismo irresponsabile.
Le minacce provenienti dal Medioriente, come quelle agitate dalla Russia, sono concrete, attuali ed esistenziali, per le democrazie occidentali. Non è all’altezza dei tempi che un quadro internazionale così grave sia oggetto di zuffe tra politici per questioni di potere nazionale e alimenti risse da cortile sui media, mentre le opinioni pubbliche sono abbandonate alle logiche degli indici d’ascolto.