
Chi è l’attivista russo ormai noto anche in Occidente. E’ davvero il leader dell’opposizione al regime di Putin? Il riassunto dei fatti dal giorno del suo avvelenamento. Le manifestazioni in Russia dopo il suo ritorno sono diverse da quelle precedenti. Come si è espresso Putin sul caso e come interpretare le sue parole. Nel mondo ancora preda del nuovo Coronavirus, gli Stati autoritari si impongono.
I fatti
Il 20 agosto 2020 l’aereo di linea sul quale sta volando da Tomsk a Mosca l’attivista russo Aleksej Naval’nyj è costretto a un atterraggio di emergenza. L’attivista si sente male e viene ricoverato nell’ospedale della città di Omsk, privo di conoscenza e con i sintomi di un pesante avvelenamento. Per curarlo e chiarire le circostanze del suo malore la famiglia e alcuni politici occidentali insistono affinché Naval’nyj sia trasferito in Germania. L’accaduto ricorda il caso di un altro critico del regime russo, Pëtr Verzilov: nel 2008 era stato vittima anch’egli di un evento simile, con sintomi analoghi. Era stato curato all’ospedale della Charité, a Berlino, dov’era guarito dopo mesi di trattamenti.
Sul caso Naval’nyj cala la cortina fumogena del regime russo. Il 21 agosto i medici di Omsk dichiarano che nel paziente non è stata rinvenuta alcuna traccia di sostanze velenose. L’affermazione dei clinici russi non convince: parlano in presenza di uomini sconosciuti, in abito civile e mascherina alla bocca; la funzione di questi accompagnatori non è chiara, ma certamente non appartengono al personale dell’ospedale. Si rafforza il sospetto che i medici stiano trattando il caso Naval’nyj sotto diretta sorveglianza dei servizi segreti.
Le autorità di Mosca rifiutano dapprima il trasferimento del paziente in Occidente. Il 22 agosto Naval’nyj viene finalmente ricoverato nell’ospedale berlinese della Charité, sotto stretta sorveglianza di polizia. Il 24 agosto i medici tedeschi comunicano che Naval’nyj non è più in pericolo di vita. Nel suo corpo sono state trovate tracce di un veleno. Più tardi, il governo tedesco, in una conferenza stampa a livello ministeriale, dichiara che la sostanza venefica utilizzata appartiene in modo comprovato al gruppo di armi chimiche detto Novičok. Naval’nyj, pertanto, non è stato vittima di un normale avvelenamento: era obiettivo di un attentato, attuato impiegando un’arma chimica tuttora disponibile in Russia, in dispregio di ogni divieto imposto dai trattati internazionali. Pochi giorni dopo, due altri centri di ricerca, in Svezia e in Francia, confermano la presenza di Novičok nel corpo di Naval’nyj. Il Novičok non si compra al supermercato: è un’arma chimica e ad avervi accesso è una cerchia relativamente ristretta di persone, all’interno dell’amministrazione dello Stato.
Il 17 gennaio 2021 Naval’nyj torna in Russia, guarito. All’aeroporto di Mosca Domodedovo viene fermato al controllo passaporti e condotto nel carcere moscovita della via Matrosskaja Tišina. Sulla base di una sentenza del 2014, il 2 febbraio il tribunale lo condanna a tre anni e mezzo di reclusione: secondo i giudici, a causa del suo ricovero in ospedale a Berlino non avrebbe rispettato l’obbligo di firma che gli era stato imposto. Pertanto, Naval’nyj dovrà ora scontare la pena in carcere, detraendo la parte di arresti domiciliari già trascorsi. I giudici attendono Naval’nyj in un ulteriore processo, per diffamazione di un veterano di guerra. Il comportamento della giustizia russa verso l’attivista era già stato stigmatizzato nel 2017 e nel 2018 dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, perché politicamente fazioso.
I rappresentanti delle ambasciate di alcuni Stati occidentali richiamano la Russia al rispetto dei diritti fondamentali, nel caso Naval’nyj, e partecipano all’udienza giudiziaria a Mosca. Per questo motivo, il governo russo espelle alcuni diplomatici di Germania, Polonia e Svezia. In conseguenza, questi tre Paesi allontanano a loro volta dei diplomatici russi. La visita ufficiale a Mosca dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione europea, Josep Borrell, si conclude il 6 febbraio con toni acidi del ministro degli esteri russo, Sergej Lavrov, mentre l’emissario europeo si muove con imbarazzante debolezza e indecisione. Dietro di lui c’è un’Europa i cui Stati membri non riescono a ritrovarsi su una posizione unica, sulla questione dei rapporti con la Russia.
Chi è Aleksej Naval’nyj
Aleksej Anatol’evič Naval’nyj, avvocato, non è un politico in senso proprio. E’ diventato popolare grazie alle sue attività in Internet e come direttore del suo centro d’inchiesta contro la corruzione e il malaffare, Fond bor’by s korrupciej («Fondazione per la lotta contro la corruzione»). Il centro conta molti motivati cooperatori, tra i quali l’avvocatessa Ljubov’ Sobol’, il già viceministro russo per l’energia Vladimir Milov e molti altri. Contro i dirigenti della fondazione vengono regolarmente emessi ordini di fermo, perquisizione e altre misure di polizia che secondo i criteri di uno Stato di diritto occidentale sarebbero difficili da motivare.
Le rivelazioni della fondazione di Naval’nyj non inquietano solo la scena politica, ma anche l’oscuro panorama degli oligarchi russi. Nel 2017 Naval’nyj ha pubblicato un video con riferimenti a numerosi immobili che sarebbero proprietà dell’allora primo ministro Dmitrij Medvedev, pur se intestati a prestanome. Tra di essi vi sarebbe una grandiosa villa in Toscana. Quasi contemporaneamente al ritorno di Naval’nyj dalla Germania in Russia, è stato reso pubblico un altro video-inchiesta, che ha raggiunto in poche ore milioni di spettatori. Oggetto delle nuove rivelazioni è un enorme podere sulle rive del Mar Nero, all’interno del quale si trova un pomposo edificio di lusso. Secondo quanto affermano gli autori dell’inchiesta, il fondo sarebbe una proprietà di Vladimir Putin, mascherata intestandola a parenti e persone della sua cerchia più ristretta.
Naval’nyj cade spesso nel mirino della polizia e dei giudici: le manifestazioni alle quali chiama i suoi sostenitori non vengono mai autorizzate dalle autorità. E’ riconosciuto soprattutto dalla generazione dei russi più giovani, nelle grandi città. Non ha alcun accesso ai media ufficiali.
L’immagine di Aleksej Naval’nyj che si è consolidata in Occidente non gli corrisponde del tutto. Lo si può ammirare per il suo coraggio civile e per il suo talento organizzativo, ma i contorni del suo programma politico restano molto incerti. Il suo partito, Rossija Buduščego («La Russia del futuro»), si è sempre visto rifiutare la registrazione ufficiale da parte delle autorità. Attribuire a Naval’nyj una visione del mondo all’occidentale, nel senso di una società aperta, sembra affrettato. Le sue affermazioni sulla guerra in Georgia e sulla crisi ucraina suscitano molti interrogativi, come le sue prese di posizione sui conflitti etnici nello spazio ex sovietico. All’inizio della sua carriera, come membro del partito Jabloko («La mela»), Naval’nyj si presentava come politico liberale. Negli ultimi anni sembra aver portato maggiore attenzione verso gli strati più svantaggiati della società russa. Chi vede nel suo zigzagare una certa dose di opportunismo politico potrebbe avere ragione.
Un esempio può aiutare il lettore di lingua italiana a situare meglio Naval’nyj: è una sorta di Antonio di Pietro. Naval’nyj non è un magistrato ma un avvocato; non parla con le simpatiche espressioni dialettali che hanno reso celebre il giudice italiano, ma ha un innegabile talento comunicativo, determinante per il suo successo sui canali Internet. Come Di Pietro, anche Naval’nyj è diventato popolare grazie alle inchieste contro il malaffare, ma, tradotto in politica, il suo messaggio si è scontornato. Oggi Naval’nyj sembra un po’ bloccato in questa posizione trasversale. Cosa farebbe, se sedesse al vertice dello Stato russo, nessuno osa prevederlo. Ho parlato con dei russi che certamente non sono sostenitori di Putin, ma guardano con terrore a un eventuale governo Naval’nyj.
Naval’nyj è il «leader dell’opposizione russa?»
In Occidente, Naval’nyj è celebrato come «leader dell’opposizione russa.» La realtà è più cruda. Un tale leader, in Russia, non c’è, perché non c’è nemmeno una vera opposizione. Gli avversari del Cremlino formano una galassia di blogger, attivisti e commentatori che non fanno massa critica, presi singolarmente. Naval’nyj è di gran lunga quello più organizzato e di maggior successo, ma non ha intorno a sé una vera struttura politica, come non l’hanno gli altri attivisti antiregime russi fuori dal parlamento. Un’opposizione all’interno del parlamento esiste, a Mosca, ma non può contraddire nell’essenziale la linea del partito di Putin, Edinaja Rossija («Russia unita»). I partiti di opposizione parlamentare, per il regime di Mosca, fungono più da stampelle che da vere controparti politiche.
In breve: tra il Naval’nyj attivista e il Naval’nyj politico bisogna tracciare un confine. Sul terreno dell’attivismo, i contorni della sua opera sono definiti; su quello della politica sono piuttosto sfocati. Chi vede in lui un eroe della democrazia e dello Stato di diritto farebbe meglio, per il momento, a ridimensionare le sue aspettative, almeno come misura precauzionale. Categorie orma caduche del pensiero politico – destra/sinistra, progressista/conservatore, fascismo/comunismo… – aiutano poco o niente.
Tutto ciò premesso, mettere a tacere Naval’nyj è fermamente nell’interesse del regime russo e degli affaristi che circondano il Cremlino, in gran parte oligarchi della prima ora postsovietica che sostengono il sistema-Putin con fedeltà incrollabile, non senza riceverne generose contropartite.
Il fallito avvelenamento
Durante la conferenza stampa di fine d’anno 2020, Putin si è espresso sul caso Naval’nyj in modo sorprendentemente sfrontato: «Se avessimo voluto avvelenarlo noi – ha detto – avremmo finito il lavoro,» cioè lo avremmo ammazzato senza possibilità di errore. Putin non è un Trump qualunque. Pesa le parole sul bilancino dell’orafo e di solito parla piuttosto chiaro. Quell’affermazione a proposito di Naval’nyj certamente non è stata fatta per caso: con essa, Putin dice senza più freni inibitori che lo Stato può uccidere chi non piace al regime. Naval’nyj ne è uscito, ma tutti gli altri stiano allerta. Si sapeva già, ma ora a dirlo è il capo dello Stato.

Un capolavoro del gruppo di Naval’nyj è stata la telefonata tra Naval’nyj stesso e un funzionario dei servizi segreti russi coinvolto nel suo avvelenamento. Pochi giorni prima, alcuni giornalisti d’inchiesta avevano pubblicato l’elenco dei funzionari incaricati del suo pedinamento, durante i suoi incontri con collaboratori e sostenitori in tutta la Russia. Al telefono, Naval’nyj si è finto a sua volta un collaboratore dei servizi. Il funzionario non ha riconosciuto la sua voce e ha spiegato l’andamento dell’attentato. L’avvelenamento era quasi riuscito, ha detto, peccato che il comandante dell’aereo abbia voluto atterrare a Omsk in emergenza e il paziente sia stato dapprima ricoverato lì e poi curato in Germania. I suoi vestiti, rimasti nell’ospedale russo, non gli sono mai stati restituiti, perché si sarebbero trovati i resti di veleno nella sua biancheria intima (tracce di Novičok erano già state rinvenute nel sangue di Naval’nyj e su oggetti provenienti dalla sua stanza d’albergo).
Molti si chiedono come sia possibile che un funzionario dei servizi segreti si lasci andare a queste rivelazioni al telefono e che i pedinamenti di Naval’nyj, perduranti da anni, possano essere ricostruiti in modo così relativamente semplice. Chi conosce la situazione non si meraviglia: la qualità degli uomini del regime russo non è sempre all’altezza della sua grandeur. Il successo del Cremlino sulla scena internazionale si deve in gran parte al fatto che nessuno, nel mondo, lo contrasta seriamente. L’ho spiegato più in dettaglio nel mio libro >Il progetto della Russia su di noi.
C’è chi pensa pensa che la telefonata di Naval’nyj, pubblicamente disponibile su YouTube, potrebbe essere falsa. E’ poco verosimile: se si scoprisse che è finta, la credibilità che Naval’nyj si è costruito in anni di attivismo andrebbe distrutta. D’altra parte, i servizi segreti russi potrebbero dimostrare in modo tecnico oggettivo l’eventuale falsità della telefonata: basterebbe una semplice comparazione vocale. Non lo hanno fatto, almeno sinora. Tutto lascia credere che la telefonata e i suoi contenuti siano autentici.
Le manifestazioni dopo il ritorno di Naval’nyj
Le manifestazioni che si sono svolte in tutta la Russia dopo il rientro di Naval’nyj si distinguono da quelle del periodo precedente il suo avvelenamento sotto diversi aspetti. Il numero dei partecipanti è stato più elevato che mai. I media di Stato, sinora, avevano quasi o del tutto ignorato i cortei di Naval’nyj; questa volta, invece, ne hanno parlato sin dalla sera prima, con lo scopo evidente di dissuadere i cittadini dal prendervi parte. Nel giorno delle proteste, i servizi giornalistici sono stati insolitamente esaustivi: le notizie, però, non venivano introdotte spiegando senso e scopo delle manifestazioni, ma elencando i procedimenti giudiziari pendenti su Naval’nyj. Sul suo avvelenamento, non una parola. I reporter hanno lamentato che attraverso piattaforme Internet come TikTok erano stati chiamati a partecipare ai cortei anche dei minorenni. E’ stato effettivamente così e ciò ha sollevato critiche da ogni parte.
La versione diffusa dai media ufficiali tendeva a far credere che i partecipanti fossero in gran parte giovani illusi e vittime dalla propaganda occidentale. La polizia aiutava persone colte da malore e distribuiva mascherine anti-COVID, nient’altro. Non si può escludere che sia stato così, in alcuni casi, ma le immagini che scorrevano sulle poche reti indipendenti rimaste raccontavano un’altra storia. Piazza Puškin a Mosca e i vialoni di San Pietroburgo erano neri di una folla di ogni età, mai vista prima. Ai microfoni degli intervistatori, molti dichiaravano di partecipare per la prima volta a una manifestazione. Durante le proteste del 23 gennaio sono stati arrestati più di 3500 dimostranti, durante quelle del 31 gennaio oltre 5000.
Le violenze da parte delle forze dell’ordine si sono rese visibili particolarmente nel secondo fine settimana di manifestazioni; poiché i posti nelle carceri e nelle stazioni di polizia cominciavano a scarseggiare, molti dimostranti fermati hanno trascorso giorni e notti in bus e furgoni cellulari strapieni. Da notare la presenza tra la folla della figlia e della vedova del politico Boris Nemcov, anch’egli oppositore di Putin, ucciso nel 2015 a due passi dal Cremlino. Portavano mascherine con la scritta «Naval’nyj.» Gli atti di violenza e vandalismo da parte dei dimostranti si sono limitati a casi isolati, anche i media di Stato non avevano molto da mostrare, a questo proposito.
Questa volta, però, le autorità hanno avuto dalla loro parte un argomento difficile da contrastare: le disposizioni sulla lotta contro la pandemia, che vietano gli assembramenti. Per i dimostranti arrestati e ammassati giorno e notte nei bus e nelle celle comuni, però, la possibilità di una diffusione del contagio non sembrava preoccupare particolarmente il governo.
Putin sulle manifestazioni
E’ molto istruttivo il modo in cui Vladimir Putin ha dipinto le manifestazioni, parlando a un incontro con degli studenti universitari. La sua risposta è un esempio di come viene distorta la realtà a fini di propaganda. Il presidente russo ha paragonato le proteste in Russia all’assalto al parlamento degli Stati uniti del 6 gennaio, dicendo: in Russia, chiunque è libero di manifestare il proprio pensiero, purché lo faccia nel rispetto della legge. Negli Stati uniti, coloro che hanno assaltato il parlamento sono stati arrestati e rischiano condanne pesantissime, perché hanno manifestato il loro punto di vista, ma lo hanno fatto violando la legge. Anche in Russia, coloro che hanno voluto manifestare in piazza hanno violato la legge, perché le manifestazioni non erano autorizzate, perciò è giusto che siano arrestati e condannati.
Putin non dice, però, che nessuna manifestazione del genere viene autorizzata, perciò la libertà di espressione che lui vanta non esiste. Inoltre, Putin «dimentica» che gli assalitori del Campidoglio (tra i quali, ironia del destino, si contavano anche cittadini russi) non esprimevano pensieri qualunque: agivano con l’intento esplicito di capovolgere le istituzioni e aggredire fisicamente le più alte autorità dello Stato. In Russia, ciò non è accaduto.
Ci si può chiedere come sia possibile che la popolazione accetti dal capo dello Stato spiegazioni di questo tenore. I discorsi di Putin hanno un destinatario-tipo ben definito. Si rivolgono alla maggioranza di russi che vivono in gran parte fuori dalle grandi città, paghi della loro vita e del loro orizzonte che finiscono dove passa il confine del loro villaggio. Non hanno connessione Internet, non parlano inglese, quando rispondono alle domande di qualche viaggiatore o giornalista che si inoltra in quelle lande dicono tutti più o meno la stessa cosa: la pensione arriva, qui abbiamo aria pura e acqua pulita, cosa bisogna volere di più dalla vita?
A chi parla Putin: le periferie

Per noi occidentali è molto difficile figurarci lo spazio fuori dalle grandi città, in Russia e in buona parte dell’Europa dell’est. Da noi, ormai, la differenza tra città e campagne è pressoché nulla, grazie a uno sviluppo economico più equilibrato, particolarmente dal Dopoguerra in poi. L’economia urbana e quella rurale sono integrate. A est, invece, la popolazione delle campagne resta legata a una sorta di economia agricola di sussistenza: producono da soli il loro fabbisogno alimentare e guadagnano il poco denaro necessario per il resto dei servizi attraverso la vendita del sovrappiù o facendo qualche lavoro stagionale.
La vita in campagna è un circuito socioeconomico a sé, piacerebbe a molti cultori della vita romantica e della decrescita felice, ma si porta appresso pesanti limitazioni alle possibilità di sviluppo personale, di istruzione e di comunicazione con il resto del mondo. Persino la lingua è diversa: in Russia non esistono i dialetti, come li intendiamo noi, ma la parlata si differenzia tra città e campagne. Nei casi più estremi i russi delle città faticano a capire i campagnoli, che non aprono le o, troncano le terminazioni degli aggettivi e impastano le consonanti. C’è una definizione specifica, carica di storia, per quel modo di parlare: kolchoznoe proiznošenie, «pronuncia da kolchoz,» le cooperative agricole collettivizzate del periodo sovietico.
La separazione tra città e campagne ha radici storiche profonde: i contadini dei kolchoz – che rappresentavano quasi il 40% della popolazione sovietica – non avevano nemmeno diritto di ricevere la carta d’identità. Venivano iscritti nei registri della cooperativa agricola al compimento dei 16 anni d’età e non potevano allontanarsene senza il permesso del comitato che la amministrava. Ciò impediva loro, tra l’altro, di cercare liberamente prospettive di vita o un lavoro diverso nelle città. I contadini dei kolchoz poterono a ricevere i documenti d’identità solo a partire dal 28 agosto 1974. Non è raro, in russo, sentir usare ancora oggi l’espressione «venire dalla campagna» con tono dispregiativo, più o meno ironico, per indicare arretratezza, ignoranza, ingenuità.
Oltre le campagne
Questo tipo umano non è rappresentato solo da contadini in senso stretto. E’ onnipresente, tra le popolazioni della provincia russa, rintanate nelle scolorite periferie delle città, intabarrate nei loro paltò e nelle loro ušanka (quello che noi chiamiamo «colbacco»), ma egualmente disinteressate a ogni sviluppo. Se gli ospedali chiudono, se dai tetti delle scuole piove dentro, se le strade sono un pantano, per questa parte di popolazione la colpa non è di Putin, ma del crollo dell’Unione sovietica e del comunismo, che a tutto provvedeva; oppure, è colpa «dell’Occidente,» che odia la Russia. Putin, ai loro occhi, è l’uomo che tenta di riconquistare la grandezza perduta e fustiga i governatori delle regioni, quando, durante le interminabili dirette televisive del presidente, gli abitanti delle province lamentano che manca il necessario.

Piazza Puškin, Mosca | © Ivan Šilov
Molte persone che la pensano così, in realtà, per ragioni di età non hanno conosciuto il periodo sovietico se non nella prima gioventù o attraverso i ricordi dei genitori. La loro nostalgia e la loro diffidenza verso l’Occidente sono frutto della propaganda, che funziona brillantemente, su persone che non vedono altro se non la TV di Stato. Per leggere e ascoltare i pochi media alternativi rimasti e i canali internazionali, serve una tecnologia che loro non sanno usare.
A questa categoria di cittadini, si rivolgono gli autocrati dell’Est, non solo in Russia. L’agosto scorso, quando le manifestazioni hanno cominciato a prendere corpo in Bielorussia, Aleksandr Lukašenko ha organizzato centinaia di autobus per andare a prelevare gli abitanti delle campagne e portarli a sfilare nella capitale a favore del suo regime, immobile da trent’anni. I suoi sostenitori sono nella provincia, non nelle città. Lo stesso vale per i partiti ultraconservatori e cattolici al governo oggi in Polonia e Ungheria, che nelle campagne hanno il loro inesauribile serbatoio di voti.
A questa popolazione, la logica elementare delle risposte di Putin si adatta alla perfezione. E’ il ritratto del cittadino che esce dalla Quarta teoria politica di Aleksandr Dugin. Se non arriva la politica, a catturare questa fascia di cittadini, ci arriva la Chiesa ortodossa con i suoi predicatori dalle lunghe barbe. Il risultato non cambia.
L’altra categoria alla quale si rivolgono i satrapi dell’Est è quella dei funzionari dello Stato: questi avversano ogni cambiamento, perché sanno che la caduta del regime significherebbe la loro epurazione. Se Putin dà risposte ai confini dell’ingenuità, lo capiscono ma sorvolano, perché sanno che il presidente, con i suoi fervorini, protegge non solo se stesso, ma anche il sistema di potere del piccolo impiegato pubblico. Per non parlare degli oligarchi, i ricchi sfondati del postcomunismo, che oscillano in una nube grigia tra politica ed economia sommersa.
Poi c’è una massa di indifferenti, non ignoranti ma nemmeno colti, non isolati ma nemmeno aperti al mondo, non contadini ma nemmeno del tutto urbanizzati. Forse non sostengono Putin, ma non lo avversano. Quando parli loro di politica, ti dicono: e se non Putin, chi altro? Del resto, al mondo non si può pretendere che siano tutti dei cuor di leone.
Chi potrebbe cambiare le cose
Gli unici che potrebbero scuotere la Russia (e diversi altri Paesi dell’Est) da questo galleggiamento nel surreale sono gli abitanti più istruiti, in prevalenza giovani e giovani-adulti, concentrati nelle grandi città, che parlano le lingue, si informano via Internet e viaggiano all’estero. Sono – in parte, non tutti – quelli che scendono in piazza, ma sono pochi, anche se nelle strade di Mosca, San Pietroburgo o Chabarovsk sembrano tanti.

Qualcosa sta cambiando, è vero: l’avvelenamento di Naval’nyj è stato un giro di boa. Non era mai accaduto che Putin rispondesse a un video diffuso dalla Fondazione per la lotta contro la corruzione, questa volta lo ha fatto in modo esteso, dal suo punto di vista. Non era mai successo che le TV di Stato parlassero così diffusamente di Naval’nyj e delle manifestazioni organizzate dal suo gruppo. Questa volta lo hanno fatto. Naval’nyj stesso, tornando dalla Germania pur sapendo che sarebbe stato arrestato appena messo piede in aeroporto, ha dato un segnale significativo.
Tuttavia, anche se si sommano i partecipanti a tutte le manifestazioni di questi mesi, i simpatizzanti che strizzano l’occhio ma non osano scendere in piazza, i seguaci di varia natura, si ottengono numeri minimi, rispetto al resto della popolazione, inerte e non ancora abbastanza insoddisfatta dello status quo. Il regime è più preoccupato di prima, ma non sembra che abbia ancora motivo di temere seriamente per le proprie poltrone. La piramide del potere del partito di Putin, dal capo al vertice sino al semplice cittadino alla base, è ben salda, perché quelli che ne ricavano il loro pezzettino di fortuna prevalgono ancora sugli altri.
Per conseguire qualche risultato, un’opposizione russa, se mai ci sarà, dovrà raggiungere quelle periferie nelle quali oggi Putin pesca i suoi consensi, dovrà spezzare il sonno degli indifferenti, dovrà riuscire a volgere a sé i voti dei funzionari pubblici. Dovrà convincere decine e decine di milioni di russi che uno Stato di diritto ha più vantaggi della terza edizione dello zarismo nella quale oggi vedono marcire i loro diritti fondamentali. A questo scopo, un’opposizione deve concepire un progetto di sviluppo per tutta le Russia, capace di futuro, da attuare facendo leva su una moderna classe media che operi in un’economia libera e in una società aperta. Queste condizioni-quadro devono prima essere create, poiché in Russia di fatto non esistono. La strada è ancora lunga.
Cosa significa Naval’nyj per noi occidentali
Cosa dice la saga di Naval’nyj a noi occidentali? Il suo programma politico non è chiaro. Il suo passato lascia dei punti interrogativi. Nessuno osa immaginare se la Russia, sotto la sua presidenza, sarebbe migliore. Non lo sappiamo noi, non lo sanno i russi. I media occidentali innalzano Naval’nyj a eroe della libertà e dei valori dello Stato di diritto. Si dovrebbe usare più prudenza. Dovremmo prendere le distanze dal nostro entusiasmo per le proteste; chiederci se le manifestazioni di massa sono davvero il passo giusto verso un cambiamento, se una società civile russa effettivamente esiste, dove e in quali forme. La validità dei modelli di pensiero occidentali non si estende senza limiti verso est.
Il caso Naval’nyj ha un valore oggettivo, oltre la sua portata soggettiva. Ci mette di fronte all’evidenza che nella Russia di Putin abbiamo uno Stato vicino nel quale chi non si allinea al governo viene trattato con le armi chimiche e zittito applicando il codice di procedura penale del regno dell’assurdo; un Paese in cui una storia secolare di monarchie assolute, totalitarismo e autoritarismo non si concluderà a breve, nemmeno con le prossime elezioni. Dipende da noi, decidere se e quanto vogliamo asservirci a questo scomodo vicino.
Chi gioca con la Russia di Putin, gioca con i nostri diritti fondamentali, non solo con quelli dei russi: questa consapevolezza non sembra ancora sufficientemente radicata, in molti dirigenti occidentali. La pandemia ha imposto anche al Cremlino nuove priorità, è vero, ma non bisogna farsi ingannare dalla calma apparente. Il mondo in preda al nuovo Coronavirus è come un campo coperto di neve: vi regna il silenzio, qualche rumore isolato qua e là, sembra che non accada nulla.
In realtà, sotto la coltre di questo inverno pandemico, sta germogliando un nuovo ordine mondiale nel quale gli Stati autoritari si impongono, in parole ed opere, in modo sempre più sfrontato. L’affermazione di Putin sul caso Naval’nyj, «se avessimo voluto avvelenarlo noi, avremmo finito il lavoro» è solo un esempio più chiaro di altri.
| >Questo articolo in versione tedesca