Strasburgo: su cosa dobbiamo smettere di tacere

Arma da fuoco | © Sebastian Pociecha
Arma da fuoco | © Sebastian Pociecha

Si dovrebbero poter affrontare i problemi del contatto fra etnie diverse senza le urla dei nuovi squadristi in un orecchio e i predicozzi delle anime belle nell’altro. Si può indurre un individuo a compiere un atto abominevole, radicalizzandolo sulla base di un bagaglio religioso e intellettuale che si credeva ormai accantonato, superato magari da una generazione.


Bisognerebbe poter parlare di questi argomenti senza il ricatto morale di essere definiti razzisti, o addirittura fascisti o sostenitori di partiti innominabili. Si dovrebbero poter affrontare i problemi del contatto fra etnie diverse senza le urla dei nuovi squadristi in un orecchio e i dogmi degli idealisti nell’altro. Anche il profilo del terrorista di Strasburgo è pressoché identico a quello di precedenti attentatori. Retroterra migratorio, apparentemente ben integrati, in Europa da tempo, talvolta da una generazione o più, con passaporto europeo; curriculum criminale più o meno grave sul quale s’innesta l’attentato omicida o stragista; tra di essi anche incensurati con una non lamentevole condizione sociale. Partiamo da queste considerazioni per analizzare più da vicino gli eventi.

Il problema non è la religione islamica: vi sono milioni di musulmani che non commettono attentati; d’altra parte sappiamo che qualunque religione, se manipolata, può stimolare le violenze più atroci. Chi lavora a contatto con i radicalizzati, poi, riferisce che questi sono ben poco colti, in materia religiosa, se si eccettua qualche delirante giaculatoria imparata a memoria. Né si può dire che «non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani:» la Storia e il presente sono pieni di terroristi di ogni religione, causa e filosofia politica.

Il problema non è nemmeno la condizione psichica soggettiva di questi attentatori: non sono degli incapaci. Concepiscono atti feroci, individuano gli obiettivi e predispongono gli strumenti, agiscono, da soli o in gruppo, e poi sanno sfuggire alla cattura, da soli o di concerto con i fiancheggiatori, in Europa o altrove. Anche la spiegazione secondo cui gli atti terroristici sarebbero gesti di persone socialmente disperate ed emarginate non regge, ormai si sa che non è questo l’elemento tipico.

L’inserzione in una società A di persone provenienti da una società B, specie quando quest’ultima è molto diversa, è un’impresa difficilissima, più di quanto si sia creduto per decenni. Bisogna poter dirlo, poiché ciò non mette in discussione il principio fondamentale secondo cui tutti gli uomini hanno pari dignità, perciò non deve scatenare le aggressioni degli zelanti che vedono razzismo ovunque, spesso senza neppure conoscere esattamente il significato di questa parola ed estendendone l’applicazione a fattispecie estranee.

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Sarebbe già molto poter osservare in santa pace un fatto oggettivo, cioè che tra le diverse culture e civiltà del mondo (cultura e civiltà non sono la stessa cosa) esistono, appunto, differenze. Prendere atto che si può determinare un individuo a compiere un atto abominevole, radicalizzandolo sulla base di un bagaglio religioso e intellettuale che si credeva ormai accantonato, superato magari da una generazione. Quel bagaglio continua a giacere, invece, in qualche recesso dell’animo umano e, a certe condizioni, può essere risvegliato e riprogrammato nel peggiore dei modi, anche a decenni di distanza. Può trasformare un lestofante di provincia e persino un incensurato in uno stragista. Contiene, forse, un misto di messaggi religiosi travisati, di sintonie culturali e linguistiche, di voglia di riscatto sociale abilmente manipolati…

Chi istiga a commettere questi attentati non cerca sbandati qualunque, ma soggetti con questo specifico retroterra, sul quale lavora per radicalizzarli e determinarli a condotte criminali. Sa che su persone con altri profili i suoi argomenti non funzionerebbero. La provenienza da uno specifico passato migratorio, perciò, anche nei casi in cui è apparentemente superata da tempo, fa la differenza.

Prendere atto di questo dato oggettivo non sarebbe razzismo, ma scienza e analisi sociologica. Potrebbe aiutarci ad affrontare e forse risolvere un problema enorme che non si accantona garantendo che i media «diano una narrazione positiva del fenomeno migratorio,» come suggerisce incredibilmente il nuovo Patto globale ONU per le migrazioni, promulgato nei giorni scorsi, che ancora una volta elenca i doveri morali e le responsabilità a carico dei Paesi che ricevono i migranti, ma non dedica una sola riga ai doveri e alle responsabilità dei migranti verso le società che li ricevono (un’analisi più dettagliata delle domande sollevate dal Patto ONU si trova >qui).

Non sembra che le scienze sociali abbiano né individuato esattamente cosa sia quel germe che resta vivo e può fare di un bullo di banlieu un assassino, né che abbiano metodi di sicura efficacia per disattivarlo. Forse, l’inadeguatezza è dovuta proprio al fatto che queste scienze sono anch’esse vittima del pregiudizio, impaurite dall’apparire razziste, se prendessero atto di dati oggettivi che oggi tutti stiamo imparando a conoscere nel peggiore dei modi, assistendo al fenomeno del terrorismo religioso radicale, dopo che per mezzo secolo la migrazione e l’integrazione sono state viste come fenomeni esclusivamente virtuosi e sono state gestite secondo modelli costruiti su basi largamente ideologiche, con un elevato contenuto di falsa coscienza e sprezzo per la realtà.

Cominciare a studiare sul serio questi fenomeni, senza lo zelo degli ideologi e lo sbraitare dei sovranisti, non aiuterebbe solo noi qui e ora. Già oggi, nella sola Francia, le persone registrate a vario titolo come esposte alla radicalizzazione o potenzialmente pericolose per la sicurezza sono decine di migliaia. Impossibile sorvegliarle tutte a ogni passo. Intanto, stiamo riempiendo l’Europa di nuova immigrazione: dovremmo evitare che i nostri figli e nipoti, fra trenta o cinquant’anni, debbano soffrire le stesse perdite, moltiplicate per dieci o per cento, causate dagli eredi di coloro che stiamo facendo entrare in casa oggi.

Non c’è dubbio che la maggioranza dei nuovi arrivati si sarà integrata e si comporterà benissimo, ma questo non fa storia. I criminali sono sempre una minoranza, ma bisogna occuparsene, meglio se preventivamente, perché un solo criminale che si aggira in una città può bastare a pregiudicare la sicurezza di migliaia, anche milioni di persone, e sicurezza vuol dire libertà.

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Luca Lovisolo

Lavoro come ricercatore indipendente in diritto e relazioni internazionali. Il mio corso «Capire l'attualità internazionale» accompagna chi desidera comprendere meglio i fatti del mondo. Con il corso «Il diritto per tradurre» comunico le competenze giuridiche necessarie per tradurre testi legali da o verso la lingua italiana.

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    Tengo corsi di traduzione giuridica rivolti a chi traduce, da o verso la lingua italiana, i testi legali utilizzati nelle relazioni internazionali fra persone, imprese e organi di giustizia.

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