La parola «asilo» si sente e si legge con frequenza. Viene usata in riferimento alle migrazioni e alle richieste di protezione internazionale più comuni, ma anche per clamorosi casi di cronaca giudiziaria internazionale. Non sempre è usata nell’accezione corretta. La confusione aumenta, quando questo importante istituto viene applicato a persone dai profili particolari.
Tra i casi più noti per i quali è stata usata la parola «asilo» vi è quello dell’attivista australiano Julian Assange. Lo stesso termine era comparso nella vicenda del giovane statunitense Edward Snowden (2013), simile per alcuni aspetti (anche Snowden aveva rivelato informazioni coperte da segreto di Stato negli Stati uniti) e nella storia italiana della cittadina kazaka Alma Šalabaeva, alla quale l’Italia aveva offerto protezione internazionale, salvo assistere poi al suo sequestro, su territorio italiano, da parte di agenti kazaki, in modalità mai completamente chiarite. L’espressione «asilo» echeggia da Londra al Sud America, dal Kazakistan a Roma e subisce molte deformazioni.
La confusione è aggravata dal fatto che le persone delle quali si parla non sembrano avere dei profili lineari: tanto Assange quanto il giovane Snowden erano ricercati (anzi, rincorsi) dalle autorità di diversi Paesi per reati gravi; la signora Šalabaeva presentava un quadro personale alquanto complesso.
Il suo nome, poi, era legato a un noto dissidente kazako rifugiato in Europa, ma in Europa anche condannato per reati patrimoniali. Il concetto di «asilo» finisce così in un tritacarne di parole, sebbene la precisione, in riferimento a questo importante istituto del diritto internazionale, sia essenziale, per orientarsi nei fatti.
Bisogna innanzitutto distinguere l’asilo dalla migrazione per ragioni economiche, ossia lo spostamento di chi chiede di entrare in un altro Paese per trovare migliori condizioni di vita e lavoro. L’asilo è l’ospitalità a fini di protezione concessa da uno Stato a cittadini di un altro Stato, che nel loro Paese abbiano fondato timore di essere perseguitati per un elenco preciso e delimitato di ragioni, stabilito dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa allo status dei rifugiati. Tali ragioni sono: «La […] razza, la religione, la cittadinanza, l’appartenenza a un determinato gruppo sociale o le […] opinioni politiche» (Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, art. 1).
A far fede per la concessione dello status di rifugiato (ossia, l’asilo politico, in linguaggio comune) è, pertanto, la condizione soggettiva che la persona richiedente venga perseguitata nel suo Paese d’origine per una delle ragioni suddette. La valutazione della sua eventuale situazione giudiziaria penale resta su un piano diverso. Ma che significa «perseguitato?»
Perseguitato è chi viene fatto segno di pene e limitazioni della libertà personale senza basi legali (nulla poena sine lege), o se tali basi legali sono arbitrarie o contrarie ai principi di umanità riconosciuti nelle dichiarazioni internazionali, oppure se rischia la vita o lesioni all’integrità fisica. Se anche la persona fosse condannata nel suo Paese per ragioni valide, ma in quel Paese le condizioni di carcerazione ed esecuzione della pena fossero contrarie ai principi di umanità, non ne è consentita la consegna alle autorità di tale Paese, questa volta però ai sensi delle norme sull’estradizione.
Pare difficile riconoscere in Julian Assange o nel giovane Edward Snowden i presupposti per la concessione dello status di rifugiato a causa di una persecuzione dovuta alle loro idee politiche. Entrambi non sono perseguitati, ma ricercati per aver commesso violazioni del segreto di Stato e altri reati. E’ difficile affermare che la condanna sarebbe priva di basi legali, se venissero condannati per questo motivo, o che le leggi degli Stati coinvolti siano contrarie ai principi di umanità riconosciuti.
Vero è che alcuni Stati USA prevedono la pena di morte, ma andrebbe prima chiarito se i reati contestati siano puniti con la pena capitale e se tale pena verrebbe effettivamente applicata. Se gli Stati uniti abbiano poi commesso crimini di guerra o violato norme di riservatezza dei dati o altre convenzioni internazionali, è questione seria, ma da affrontare su tutt’altro piano, non con la diffusione indiscriminata di informazioni coperte da segreto di Stato.
L’uso della parola «asilo» in riferimento all’attività di alcuni Paesi latinoamericani che si prestano ad accogliere fuggiaschi dai profili non sempre immacolati è, pertanto, fuori registro. Va precisato, poi, che l’asilo concesso a Julian Assange presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra rientra in una categoria particolare: si tratta del cosiddetto asilo diplomatico, appunto perché dato nei locali di una rappresentanza diplomatica, fuori dal territorio dello Stato. Non tutti gli Stati applicano questa forma di protezione. E’ vero che, formalmente, un’ambasciata è extraterritoriale, rispetto al Paese in cui si trova, ma l’istituto dell’asilo, di principio, è azionabile solo sul territorio vero e proprio dello Stato.
Ben diverso è il caso dell’Italia e della signora Šalabaeva. Innanzitutto, la sua posizione deve essere distinta da quella del marito, anche se nelle cronache le due figure vengono spesso accomunate. Ciascuno risponde delle proprie condotte e l’eventuale esistenza di concorsi deve essere accertata, anche qui, su un altro piano.
Eventuali ipotesi penali a carico della signora Šalabaeva non interferirebbero con la causa per la quale la signora ha diritto allo status di rifugiato, cioè la situazione del suo Paese d’origine, il Kazakistan, governato da un regime autoritario dove l’espressione di opinioni politiche difformi dal potere è oggetto di persecuzione, mentre l’amministrazione della giustizia e l’esecuzione delle pene non danno le garanzie di rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti dalla comunità internazionale. Va precisato, però, che la commissione di reati particolarmente gravi può comportare la revoca dell’asilo.
Una forma particolare di asilo è la cosiddetta protezione umanitaria: un istituto che permette a coloro che si trovano in uno Stato estero di restarci temporaneamente, se ne loro Paese vigono condizioni di particolare gravità, anche non comprese nei presupposti dell’asilo politico vero e proprio, e per un ristretto numero di altre ragioni per le quali non è possibile respingerli nei loro Stati d’origine.
Non tutte le forme di protezione, pertanto, possono essere definite «asilo.» Può accadere che gli istituti di protezione vengano distorti e usati per tutelare individui di dubbio merito. Dietro l’uso non sempre consapevole di una parola si celano situazioni profondamente diverse, che la confusione lessicale non aiuta a discernere.