La scelta delle parole determina il posizionamento della crisi siriana nel suo contesto geopolitico. L’esercito siriano e l’aviazione russa hanno sì liberato Aleppo dallo «Stato islamico,» ma il regime di Asad, che era il vero obiettivo della «Primavera araba» siriana del 2011, resta al potere. Un’analisi dopo la cinquantatreesima Conferenza internazionale sulla sicurezza di Monaco.
Nei giorni successivi alla parziale distruzione della città siriana di Aleppo, sulle pagine di alcuni giornali europei si leggeva che l’esercito siriano e l’aviazione russa avevano «liberato» la città. Il termine «liberazione» compariva con particolare frequenza in alcuni media di lingua italiana, i cui reportage sono fortemente orientati alla visione del mondo russa. I titoli erano rafforzati da immagini di cittadini festanti che riprendevano possesso delle loro case e dei loro negozi nella città «liberata.» I commentatori si rallegravano della progressiva «stabilizzazione» della Siria e dell’arretramento dell’autoproclamato «Stato islamico.» Dall’altra parte, però, abbiamo di fronte le immagini di disperazione e distruzione che ritraggono in Aleppo il luogo di una delle peggiori catastrofi umanitarie del nostro tempo. Il monumentale e cosmopolita capoluogo della Siria settentrionale, il cui centro storico nel 1986 è stato dichiarato dall’UNESCO Patrimonio dell’umanità, è stato semidistrutto o «liberato?» Tutto ciò ha qualcosa a che fare con la «stabilizzazione» della Siria?
Se vogliamo rispondere a queste domande e guardare oltre la bipolarità dei media, dobbiamo ripensare all’origine della crisi siriana nel quadro più ampio delle cosiddette «Primavere arabe» del 2011. Come in altri Paesi del Medio oriente e del Nord Africa, anche in Siria i promotori delle rivolte puntavano alla caduta di un regime autoritario, al potere da decenni. A Damasco si trattava del sistema di potere della famiglia Asad, instauratosi nel 1971 con l’ascesa alla presidenza di Hafiz al-Asad, e che oggi prosegue nella persona del figlio di questi e attuale capo dello Stato siriano Bashar al-Asad. In Occidente abbiamo salutato con favore le rivolte dei dimostranti delle «Primavere arabe» che scuotevano e facevano crollare dittature apparentemente infinite in Egitto, Tunisia, Libia e altri Paesi di quella regione. Possiamo altrettanto rallegrarci, ora, della «liberazione» di Aleppo?
L’esauriente e interessantissimo dibattito sulla Siria avvenuto nel quadro della cinquantatreesima Conferenza internazionale sulla sicurezza di Monaco di Baviera ha presentato un’efficace sintesi delle posizioni su quello scenario. Desidero citare qui l’intervento di una giovane attivista siriana, Noura Aljizawi, che ha ricordato a tutti i partecipanti alla Conferenza i veri motivi della rivoluzione siriana (video in lingua inglese).
Noura Aljizawi, già vicepresidente della National Coalition of Syrian Revolution and Opposition Forces (Coalizione delle forze siriane di rivoluzione e opposizione) era presente alla Conferenza di Monaco come componente dei Munich Young Leader, un gruppo formato da giovani che si sono particolarmente distinti nelle organizzazioni governative o della società civile dei loro Paesi, in Europa e in Stati strategicamente importanti di altri continenti. Gli Young Leader vengono selezionati dalla Fondazione Körber di Berlino e dalle ambasciate tedesche nei rispettivi Stati. A causa delle sue attività come reporter e attivista dei diritti civili durante il movimento di protesta del 2011 contro il regime siriano di Asad, nel quadro delle cosiddette «Primavere arabe,» Noura Aljizawi ha subito 6 mesi di carcerazione e tortura. Il video completo del dibattito (circa 90 minuti) è visibile sul sito della Conferenza di Monaco, >qui.
La «Primavera araba» siriana cominciò perché il regime di Asad, come tutti gli altri governi simili nei Paesi delle «Primavere,» non era più sopportabile. Durante le rivolte il Paese cadde nel caos, si aprirono vuoti di potere nei quali ebbero modo di espandersi indisturbate forze terroristiche, tra le quali l’autoproclamato «Stato islamico» e al-Nusra. L’eterna questione dei curdi divisi tra diversi Stati e le controversie tra la Turchia, l’Iran e gli altri soggetti statali e non statali della regione si acuirono ulteriormente. L’opposizione siriana si frantumò in innumerevoli raggruppamenti. Nel 2012 un intervento degli Stati uniti avrebbe ancora potuto travolgere il regime di Asad. L’intervento fu annunciato, ma non ci fu. Quell’errore strategico (la nota retromarcia della «linea rossa») è oggi citato sempre più spesso come il più grave errore di politica estera commesso dall’amministrazione Obama. Gli spaventosi sviluppi che seguirono sono noti. Nonostante ciò, a partire dalla metà del 2015 il regime di Asad fu comunque sul punto di crollare, sebbene non per effetto delle rivolte delle «Primavere arabe,» ma a causa della crescente forza dello «Stato islamico.» Con azioni tragicamente spettacolari, come la distruzione dei mausolei di Palmira e la decapitazione del direttore degli scavi archeologici, il cosiddetto «ISIS» estendeva quotidianamente il proprio controllo sulla Siria di città in città, di villaggio in villaggio.
La Russia si inserisce nel conflitto in questo momento: interviene militarmente a fine settembre 2015, affermando di agire contro lo «Stato islamico» e il terrorismo internazionale, ma nei fatti ponendosi a salvataggio e sostegno del regime di Asad. La battaglia di Aleppo è un momento di questa strategia. La parte orientale di Aleppo è stata rasa al suolo, senza alcuna considerazione per i civili e per le convenzioni di diritto internazionale di guerra, allo scopo di rintracciare tutti i contrari al regime di Asad, non importa se oppositori politici o membri dello «Stato islamico.» Con questo intervento, che V.V. Putin ha visibilmente condotto secondo il modello della decisiva distruzione della città di Groznyj, durante la guerra in Cecenia, Aleppo è stata effettivamente «liberata» dalla presenza dello «Stato islamico» e di altre formazioni terroriste – fin qui, l’espressione è corretta – ma non è stata svincolata dal regime di Asad, che era il vero obiettivo della «Primavera araba» siriana.
Il regime di Asad può contare in Siria sul sostegno di una parte di popolazione da non sottovalutare. Un esempio: i cristiani di Siria vedono in Asad pur sempre un sostenitore dello Stato laico e quindi della varietà religiosa. Per Asad una Siria laica è la base della sua posizione di potere, poiché egli stesso proviene da una corrente religiosa islamica minoritaria, esposta alla concorrenza di altre comunità maggiori. Il suo regime si presenta così, agli occhi dei gruppi di popolazione non islamici, come baluardo contro ogni eccesso di potere confessionale. Queste parti di popolazione siriana, e tutte quelle che il regime di Asad beneficia economicamente e socialmente, non aspettavano altro che l’intervento russo. Per questa parte di abitanti, l’interesse privato e degli affari è più importante di qualunque altra argomentazione. La gioia di molti cittadini di fronte all’intervento russo, che ha confermato Asad al potere, non deve meravigliare. Come in ogni regime autoritario, solo delle minoranze coraggiose e lungimiranti prendono attivamente posizione contro i soggetti dominanti e per lo sviluppo di una società aperta.
Quando guardiamo agli eventi siriani, dobbiamo decidere senza equivoci se sosteniamo le motivazioni delle «Primavere arabe» del 2011 e degli oppositori del regime, che vogliono rimuovere Asad dal potere e puntano a costruire in Siria un futuro di società inclusiva secondo il modello occidentale, oppure se vogliamo stare dalla parte delle attività congiunte di Asad e della Russia, con le quali Mosca e Damasco, con la collaborazione di Turchia e Iran, ancorano la Siria al club degli Stati autoritari secondo il modello asiatico. Nonostante la molteplicità degli attori coinvolti, il conflitto siriano si può ricondurre a questa fondamentale questione di valori. Per noi occidentali, l’equidistanza tra i due campi non è accettabile.
Chi usa il termine «liberazione» non racconta tutta la storia degli eventi di Aleppo. Lo stesso dilemma semantico frantuma il termine «stabilizzazione.» L’avanzata delle truppe governative di Asad e dell’aviazione russa ha reso la Siria più «stabile» rispetto a un anno fa? Certamente sì, ma, ancora una volta, il termine non descrive tutto il quadro. La «stabilità» e il cessate il fuoco sono stati portati con il mantenimento del regime di Asad. Il Paese torna indietro di sei anni, come se non vi fosse mai stata una «Primavera araba.» Con la Risoluzione 2254 delle Nazioni unite (dicembre 2015), la Russia ha acconsentito a una transizione al potere, a Damasco. Se i nuovi governanti, se mai effettivamente ci saranno, avranno come obiettivo l’instaurazione in Siria di una società aperta, orientata in senso occidentale, come speravano gli attivisti delle «Primavere arabe,» è molto dubbio, nel nuovo contesto dominato dalla Russia. La domanda per noi è: cosa intendiamo con i termini «liberazione» e «stabilizzazione?»
I termini «liberazione» e «stabilizzazione» in riferimento agli sviluppi sul teatro siriano dopo l’intervento della Russia sono fuorvianti e rappresentano delle mezze verità. L’obiettivo originario della «Primavera araba» siriana era la fine del più che quarantennale regime autoritario della famiglia Asad e l’instaurazione in Siria di un ordinamento democratico. Sinora ciò non è avvenuto. Restano ancora molte domande: chi potrebbe succedere ad Asad? Come si presenta la situazione dal punto di vista della Russia? Mi occuperò di questi e altri interrogativi nei prossimi articoli su questo argomento.
Dal 17 al 19 febbraio 2017 sono stato presente all’intera cinquantatreesima Conferenza internazionale di Monaco sulla sicurezza. L’elenco dei miei articoli sin qui comparsi sui temi della Conferenza si trova >qui. | >Originale in lingua tedesca (traduzione italiana dell’autore)
Fausto ha detto:
Salve Luca, ho ascoltato il suo seminario via Internet, molto interessante. Di tante domande che vorrei porle ne ho scelta una: alla conferenza si è per caso parlato della situazione in Yemen, che è praticamente ignorato dai media? Grazie.
Luca Lovisolo ha detto:
Buongiorno Fausto, grazie per l’apprezzamento. La situazione dello Yemen è finita nel dimenticatoio dei media, in effetti, insieme a tante altre. A Monaco se ne è parlato parecchio. In questo contesto solleva molte domande la posizione dell’Iran, che nega ogni coinvolgimento, ma il suo sostegno ideale e logistico agli Huti, di orientamento prevalentemente sciita (perciò religiosamente contigui a Teheran) è un fatto notorio. Nella vicenda vi sono due presidenti: Ali Abdullah Saleh, rimasto in carica per oltre trent’anni sino al 2011 (anno in cui una «Primavera araba» yemenita lo scacciò dal potere) e Abdrabbuh Mansour Hadi, salito alla carica per effetto delle rivolte ma rapidamente snobbato da chi si attendeva riforme e miglioramenti reali. Ambedue i presidenti si contendono ora il potere. Nella lotta, Saleh – sciita zaydita – si è affiancato agli Huti, mentre Hadi – sunnita e riconosciuto capo di Stato dalla comunità internazionale – è sostenuto dall’Arabia saudita e da un manipolo di altri Stati arabi sunniti, con l’appoggio degli Stati uniti. Nel Paese si annovera anche una considerevole presenza di al-Qaeda. Nel mezzo c’è una popolazione che ha visto fallire la sua rivolta contro il pluridecennale regime autoritario che reggeva il Paese. Nessuno dei due presidenti che ora lottano per il potere, infatti, sembra interessato a cambiare le cose. Sfavorevole anche la posizione geografica dello Yemen, che lo espone alle mire d’influenza dell’Arabia saudita, che, come noto, esprime un orientamento sunnita wahabita particolarmente conservatore. Lo Yemen è un buon esempio di «guerra per procura:» due Paesi storicamente contrapposti, l’Iran e l’Arabia saudita, si combattono su un teatro terzo, quello yemenita, sostenendo più o meno scopertamente le parti ivi in conflitto. Cordiali saluti. LL