La controversia di queste ore sull’attracco della nave italiana Diciotti con 69 stranieri a bordo riporta alla questione dei recuperi di persone in acque libiche. Innumerevoli bambini periscono già via terra, prima di giungere alle coste del Mediterraneo. Le organizzazioni criminali, da parte loro, sanno che le opinioni pubbliche europee mal sopportano la visione dei bambini vittime degli affondamenti.
La controversia di queste ore sull’attracco della nave italiana Diciotti con 69 stranieri a bordo riporta alla questione dei recuperi di persone in acque libiche. Un lettore, qualche giorno fa, richiamava qui l’attenzione sui bambini vittime di questi disastri. Di chi è la colpa, se al largo della Libia muoiono bambini? Dell’Italia? Nonostante il destino di quei piccoli susciti particolare pena, bisogna uscire dalle maglie dell’emotività.
La prima responsabilità sulla vita e integrità fisica di un minore è del genitore o tutore, che si trova, nei confronti del figlio, in una posizione di tutela. Ciò vale anche, forse ancor di più, nelle situazioni di difficoltà economica o persecuzione politica da cui partono coloro che percorrono migliaia di chilometri in Africa e giungono sulle coste libiche. Di lì si imbarcano in gommoni la cui inadeguatezza ad attraversare il Mediterraneo è già evidente secondo il buon senso del padre di famiglia. Gli affondamenti dei gommoni, che espongono a rischio di morte i loro occupanti, non sono naufragi, come li definiscono sbrigativamente i media: sono disastri marittimi procurati, e chi sale su quelle imbarcazioni sa bene a quale rischio va incontro.
Se il genitore acconsente che il proprio figlio minore salga a bordo di quelle imbarcazioni, sulle quali troverà la morte, nulla fa per impedirlo o addirittura lo incoraggia o ve lo accompagna, concorre attivamente o passivamente al suo omicidio, insieme alle bande che organizzano tali mortifere trasferte. In quelle circostanze, poi, sono presenti altri adulti, che assistono all’imbarco dei minori: non hanno gli stessi obblighi di tutela dei genitori, ma mostrano quanto meno connivenza, rispetto ai fatti a cui assistono. Non fanno eccezione i minori abbandonati. L’adulto che si imbatte in un minore non accompagnato, ovunque, non deve certo imbarcarlo su un gommone a rischio della vita, ma averne cura e segnalarlo alle autorità.
Tutto ciò accade lungo tutto il percorso attraverso l’Africa. Innumerevoli bambini periscono già via terra, prima di giungere alle coste del Mediterraneo. Le organizzazioni criminali, da parte loro, sanno che le opinioni pubbliche europee malsopportano la visione dei bambini vittime degli affondamenti. L’azione criminale non vive solo della propria condotta, ma si alimenta anche dell’eco che suscita: come i terroristi sparano su inermi in luoghi pubblici per promuovere i loro sciagurati disegni attraverso il terrore e l’indignazione che suscitano, così i passatori di uomini nel Mediterraneo riempiono i gommoni di bambini per promuovere il loro lurido business facendo leva sull’emotività di chi non sopporta, a ragione, la visione dei bambini annegati, e chiede che si vada a salvarli.
E’ umano indignarsi, ma va sempre ricordato che l’emotività, in questi casi, è un motore per chi delinque. I criminali non aspettano altro che foto-profilo Facebook con i colori delle bandiere, magliette e immagini di piccoli cadaveri con scritte che amplificano l’eco delle loro malefatte, nel lodevole intento di condannarle.
Dobbiamo, ancora una volta, distinguere tra chi fugge da reali situazioni di pericolo di vita perché perseguitato (richiedente asilo politico o altra protezione umanitaria) e chi si mette in viaggio per ragioni economiche. Senza tale distinzione è impossibile classificare ruoli e responsabilità. Il padre che fugge da una persecuzione per ragioni politiche, etniche o religiose sottrae la propria famiglia a un pericolo concreto. Sa di affrontare un viaggio non sicuro, ma in quel momento giudica che partire tuteli meglio la vita sua e dei suoi.
Chi imbarca sé e i suoi figli per migliorare la propria condizione economica, al contrario, espone a pericolo il bene giuridico della vita per un interesse di minor valore, quello patrimoniale. Non ha giustificazione, se, ciò facendo, pone a rischio la vita propria o altrui, specie di minori.
Certo: quando i gommoni cedono e gli occupanti cadono in mare, si pone comunque il problema di salvarli. Gli affondamenti avvengono solitamente poche miglia al largo della Libia: l’obbligo di salvataggio dovrebbe perciò essere ricadere sulla stessa Libia, ma vi sono anche altri Paesi vicini che potrebbero intervenire. L’obbligo di soccorrere non è assoluto: è in capo a chi può prestare soccorso potendolo fare. I Paesi più vicini possono intervenire, ma spesso restano inerti: è in primo luogo a questi, perciò, che va addebitata l’omissione di soccorso. Perché attendere che imbarcazioni italiane o di ONG di altri Stati, spesso lontanissimi, incrocino nelle acque libiche?
La Guardia costiera libica ha pochi mezzi, ma si può rafforzarla, sono già in corso attività internazionali di addestramento e integrazione. In Libia vi sono campi di raccolta che non rispettano gli standard di umanità, dove le persone recuperate in mare sarebbero riportate: si possono esercitare pressioni affinché le condizioni migliorino. E’ difficile, servono buoni negoziatori, ma gli Stati africani hanno bisogno del supporto e dei mercati dell’Europa: è così impossibile condizionare la concessione di tali sostegni alla creazione di migliori condizioni di trattamento dei migranti sul loro territorio e a più cooperazione nelle attività di recupero delle vittime di affondamento? Non si dovrebbe mai concedere senza pretendere nulla in cambio. Anche la costruzione di punti di raccolta controllati dall’Europa, indubbiamente difficile da far digerire agli Stati africani, potrebbe non essere un obiettivo così lontano, negoziando sui punti di forza che gli europei possono vantare verso quei Paesi.
Il problema non si risolverà né con una maglietta rossa né con una felpa verde. Servono cultura, intelligenza e inventiva, per risolvere i problemi alla radice ed evitare le partenze, che causano più morti ancora prima di giungere alle acque del Mediterraneo. L’obiezione, di solito, è che questo può essere solo un obiettivo a lungo termine. In senso generale, è vero. Molte piccole cose, però, dal miglioramento delle condizioni di permanenza nei Paesi costieri, alle campagne di informazione che dissuadano le persone dall’entrare in affari con le organizzazioni di passatori, ai progetti di sostegno alla piccola imprenditoria agricola o artigianale che potrebbero evitare molte partenze per ragioni economiche, possono produrre risultati in tempi anche brevi. L’organizzazione di «corridoi umanitari» per andare a prelevare persone e famiglie aventi veramente diritto alla protezione internazionale è possibile in tempi relativamente rapidi ed eviterebbe di esporre adulti e minori a viaggi spericolati.
In Italia, tutto ciò si riassumerebbe in un becero slogan sciaguratamente diffuso dalla politica: «aiutiamoli a casa loro.» Con ciò, ogni serio ragionamento nel merito diventa impossibile e affoga nella battaglia con il non meno stucchevole richiamo all’«accoglienza» come viatico per il Paradiso. Tutto muore lì, in un gorgo di parole inutili, insieme ai bambini nel mare della Libia.