Uno sarebbe abbastanza, eppure nell’accordo di pace di Trump per la Palestina ci sono almeno due elefanti nel negozio di porcellane: Hamas e l’Iran. Il documento in 20 punti, negoziato con il benestare di altri soggetti regionali tra gli Stati uniti e Israele, si basa in essenza sulla disponibilità di Hamas a rinunciare alla violenza e a ritirarsi dal teatro palestinese anche sul piano politico.
Hamas sta correndo sulla via del successo: benché indebolito nella Striscia di Gaza, ha consolidato il suo prestigio politico sulla scena globale. L’attacco contro Israele del 7 ottobre 2023 gli ha fruttato un credito politico da parte di Stati che in precedenza esitavano a riconoscere uno «Stato palestinese» – perché ciò che i governi occidentali hanno riconosciuto nei giorni scorsi è di fatto la Palestina di Hamas, che piaccia loro ammetterlo o no.
Hamas gode del sostegno di ampi settori dell’intellighenzia e dell’opinione pubblica occidentali; queste affermano di dimostrare per solidarietà con la popolazione civile nella Striscia di Gaza, ma in realtà condividono gli slogan e la visione di Hamas sullo status della Palestina. Perché Hamas dovrebbe gettare la spugna proprio adesso?
Trascuriamo la questione del governo di Gaza dopo l’entrata in vigore del piano di pace e, per prudenza, guardiamo allo stato attuale delle cose. Il piano è stato negoziato tra Israele e gli Stati Uniti. I due Paesi sono in disaccordo su vari aspetti, ma di principio si trovano sullo stesso lato del conflitto.
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Da un punto di vista regionale, è interesse comune che Hamas venga tacitato. L’Iran non condivide tale interesse e continua a garantire il proprio sostegno a questo e ad altri gruppi terroristici. La resa di Hamas dipende in particolare da due presupposti: a) Israele, con la sua offensiva terrestre, ha indebolito Hamas al punto da costringerlo a rinunciare a future azioni? b) Gli attacchi di Israele e degli Stati Uniti contro l’Iran hanno intimidito il regime dei mullah al punto che Teheran ora voglia o deva astenersi dal sostenere i gruppi terroristici della regione? Non irrilevante è anche la posizione del Qatar, dinanzi al quale Netanyahu ha dovuto scusarsi per gli attacchi aerei di inizio settembre. Se Hamas non cede, la guerra continua, dice il piano in 20 punti, cioè non cambia nulla.
Pare che durante i negoziati si sia dato per scontato che Hamas si atterrà a un piano che non ha contribuito a scrivere e che lo costringe a rinunciare alla sua lotta per una «Palestina libera dal fiume al mare» proprio in un momento di ascesa politica.
Se l’atteggiamento dei due elefanti nel negozio di porcellane non cambierà, ogni progetto di ricostruzione e riorganizzazione politica dei territori arabo-palestinesi resterà irrealizzabile, perché la guerra, come unico mezzo in grado sconfiggere Hamas, rimarrà senza alternative praticabili.