«Flottiglia:» ultime considerazioni, oltre il diritto
Chiudo le considerazioni sul caso Flottiglia dopo averne pubblicato >l’analisi dal punto di vista del diritto internazionale. Non risponderò a commenti che la contestino citando elementi fattuali non verificabili e fonti di diritto incomplete o non applicabili. Il caso, d’altra parte, è piuttosto semplice, contrariamente alla «complessità» citata come pretesto per coprire ogni arbitrio: non fosse per il fracasso che ha suscitato, non avrebbe meritato l’attenzione.
Taluni hanno lodato l’intento umanitario della Flottiglia: dovranno spiegare come avrebbe potuto recare sollievo a Gaza, poiché non trasportava nulla. Non era difficile sospettarlo: i modesti scafi non potevano imbarcare molto altro se non i viveri e il bagaglio dei partecipanti. Altri ne hanno evidenziato il significato politico: ebbene, di tale significato non si vede traccia, sullo scenario del conflitto, a meno che non si confonda la politica con la mediaticità.
Vi sono considerazioni che meritano più attenzione. La Flottiglia era formata da alcune centinaia di persone imbarcate su natanti da turismo salpati verso una zona di guerra, con l’intento di forzare un blocco navale imposto con mezzi militari. Qualcuno ha misurato l’enormità di tale azione?
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Questo interrogativo sta a monte di aspetti politici o umanitari: concerne la diligentia patris familiae, il buon senso della persona responsabile, per il diritto romano, nella quale si presume la capacità di condursi con prudenza, scansando i pericoli per sé e per i propri vicini. La vicenda della Flottiglia ricorda quelle che coinvolgono turisti, ma anche giornalisti e operatori umanitari che si inoltrano in zone pericolose ritenendosi esenti da rischi, in nome di non si sa quale estraneità al reale; salvo, poi, trasformare la loro imprudenza in caso mediatico e, per qualcuno, in motore di carriera.
I freni perduti della coscienza
Ciascuno dovrebbe avvertire un freno inibitore, verso queste condotte: un freno imposto dalla consapevolezza che le libertà di cui godiamo in Occidente, conquistate con secoli di lotta contro l’assolutismo dei monarchi e della Chiesa, sono un valore universale in astratto, ma in concreto non sono date ovunque. In Russia puoi finire in carcere e restarci fino al prossimo scambio di prigionieri; in Iran ci puoi crepare; in Africa, Asia, America Latina non puoi contare ovunque sul rispetto della procedura penale. Quando ti trovi davanti a un giudice in qualche repubblica delle banane, capisci la differenza tra uno Stato di diritto e l’arbitrio dell’inquisizione.
Dietro chi non avverte l’inibizione di questo freno e si avventura su scenari di pericolo, sembra esserci un vuoto che non si riempie con intenti politici o umanitari, perché questi sono atti sociali, mentre quel vuoto è personale. Nasce dall’intima, errata convinzione che il nostro modello sociale, che ci tutela dall’arbitrio del prepotente, sia una condizione naturale e ubique, anche presso chi non ha mai lottato, come noi, per costruirselo.
Ecco perché coloro che s’imbarcano in improbabili avventure fuori porta sono spesso i medesimi che aggrediscono i valori fondanti dell’Occidente: ne ignorano il prezzo e il privilegio di possederli, salvo invocarli come diritti acquisiti, poi, nel momento del bisogno. Togli l’habeas corpus, togli Cesare Beccaria, rieccoti ai processi sommari e agli impiccati sui bracci delle gru.
Milioni di persone in buona fede, media e politici hanno sostenuto una «flottiglia» vuota: difficile trovare un’immagine più fedele del nostro tempo.