L’arresto di Julian Assange a Londra dice di più sui cambiamenti in corso in America latina che sulla vicenda di Assange stesso. La scarsa credibilità internazionale dei Paesi latinoamericani non è dovuta solo alla loro instabilità. Dal Dopoguerra in poi, si sono prestati come rifugio di troppi impresentabili. C’è da sperare che la revoca della protezione al discusso attivista indichi un cambio di passo.
L’arresto di Julian Assange a Londra, avvenuto in queste ore, dice di più sui cambiamenti in corso in America latina di quanto riveli sulla vicenda di Assange stesso. Il fatto: sino a questa mattina, l’attivista Julian Assange, a cui diversi Paesi addebitano gravi reati, non poteva essere arrestato, perché ospitato in regime di asilo diplomatico presso l’Ambasciata dell’Ecuador nel Regno unito. L’Ecuador gli ha revocato la protezione e così ne ha resa possibile la cattura da parte della polizia londinese.
Con poche eccezioni, nel secondo Dopoguerra gli Stati dell’America latina hanno vissuto per decenni sotto dittature fra le più tremende che la Storia ricordi. Sono usciti da quei lustri di sangue, quasi tutti, durante gli anni Ottanta: i governi che da allora si sono succeduti alla guida delle ritrovate democrazie latinoamericane hanno dovuto gestire situazioni sociali ed economiche allo sbando, tutt’oggi in parte non risolte.
Conosciamo i mali dell’America latina: società umiliate da un misto di cattolicesimo e marxismo nelle quali gli individui faticano a forgiare da soli il proprio destino; l’ingerenza grossolana e prepotente degli Stati uniti; le riforme agrarie sempre attese e promesse, per ridistribuire le risorse più equamente, ostacolate dai latifondisti e dalle multinazionali dell’agricoltura.
Altro grave problema degli Stati latinoamericani è la loro carente credibilità internazionale, dovuta non solo all’instabilità dei governi e alle loro tremolanti economie. Dal Dopoguerra in poi, quegli Stati si sono prestati come rifugio dei peggiori criminali e terroristi in cerca di un porto sicuro per svernare dopo le loro malefatte. E’ appena il caso di ricordare i gerarchi nazisti, rifugiatisi principalmente in Argentina, alla fine della guerra. Fuggirono frettolosamente attraverso l’Italia, dal porto di Genova, non pochi con l’aiuto determinante di alti prelati cattolici. Laggiù hanno goduto per decenni della protezione delle dittature locali, che hanno garantito loro il cambio di identità e una vita al riparo dalle indagini degli inquirenti e dalle ricerche degli storici. Alcuni riuscirono a non pagare per i loro crimini, altri furono pescati e processati grazie al paziente lavoro dei servizi segreti israeliani o delle associazioni attive nella ricerca dei criminali di guerra fuggiaschi.
Con la fine delle dittature e il mutare degli scenari, il Sud America diventa luogo di rifugio per malfattori di altro tipo e altro segno: la vicenda del terrorista italiano Cesare Battisti, che ha potuto vivere e operare pressoché indisturbato per quasi quarant’anni tra Messico e Brasile, è paradigmatica della leggerezza con la quale gli Stati di quella regione hanno fatto uso degli istituti di protezione umanitaria per offrire paravento ad autori di reati gravissimi, per mere ragioni di contiguità ideologica.
Tuttavia, è inadeguato analizzare le vicende latinoamericane dopo il crollo delle dittature secondo un facile schematismo dottrinario: la complessità del quadro chiede di considerare le azioni dei singoli governi tenendo conto di mille variabili. Tutti hanno qualcosa per cui farsi apprezzare, anche altamente, e qualcos’altro per meritarsi critiche, anche severe. Sono molto meno simili tra loro di quanto ci sembrino, guardandoli dalla lontana Europa. Benché abbiano un analogo posizionamento, il chavismo di Hugo Chávez e Nicolás Maduro in Venezuela non è sovrapponibile all’azione di un Rafael Correa in Ecuador, del boliviano Evo Morales o della signora Kirchner in Argentina; un Mauricio Macri a Buenos Aires non è paragonabile a Jair Bolsonaro a Brasilia, sebbene, della grossa, si agitino entrambi nel campo conservatore.
Non si possono liquidare le vicende latinoamericane con delle classificazioni da bancone del bar, incluso il caso Assange, che perdura ormai da quasi un decennio. Anche se appartiene allo stesso schieramento politico, il presidente attuale dell’Ecuador, Lenín Moreno, sta mostrando su Assange una linea opposta quella del suo predecessore Rafael Correa, di cui è stato anche vicepresidente: Correa, in queste ore, ha definito la revoca della protezione su Assange «un tradimento.» Non è un mondo a compartimenti stagni.
Se si osserva il curriculum di Assange, sembra incredibile che un tale soggetto possa essere stato titolare di una protezione in quanto «perseguitato:» la sua organizzazione Wikileaks ha diffuso centinaia di migliaia di pagine contenenti informazioni segrete su attività diplomatiche degli Stati uniti, oltre a masse di dati personali. Solo una cieca prevenzione può far credere che ciò sia un beneficio per la trasparenza pubblica o sia giustificato dalla libertà di espressione: è, con tutta evidenza, un crimine. Le informazioni segrete possono non piacere, ma se sono tali è perché ciò è considerato necessario per la sicurezza dello Stato e dei cittadini. Se qualcuno ritiene che il segreto venga utilizzato per celare del malaffare, ha a disposizione molti mezzi per chiederne e ottenerne conto. Chi abusa del segreto di Stato andrà soggettivamente punito per le violazioni commesse, ma nessuno può credere che la diffusione indiscriminata di informazioni riservate sia un bene per la collettività, e che l’autore della diffusione, pertanto, vada scusato e sottratto alla giustizia.
A queste condotte, già gravi, si sommano rimproveri a carico di Assange provenienti dalla Svezia, concernenti presunti reati della sfera sessuale. La Procura svedese aveva rinunciato a procedere per l’impossibilità tecnica di proseguire l’azione, ma ora potrebbe riaprire il caso, come ha segnalato una delle vittime in queste ore. Non si può affermare che Assange sia colpevole finché non si celebreranno i processi, ma è ben difficile credere che sia un perseguitato: è un imputato di reati gravissimi, e null’altro. Proverà la sua eventuale innocenza in tribunale.
Il presidente dell’Ecuador ha motivato il provvedimento di revoca dell’asilo con le continue violazioni, da parte di Assange, degli obblighi a lui imposti in quanto beneficiario di protezione diplomatica. Ha accompagnato questa decisione con un videomessaggio dai toni molto duri. Si è aperta la consueta corsa al complotto: a quale influenza avrà ceduto, l’Ecuador, per togliere la protezione al contestato attivista?
È del tutto verosimile che più Paesi abbiano fatto crescente pressione sull’Ecuador per sbloccare il caso Assange, ma la sua posizione nel l’ambasciata ecuadoriana di Londra non era più sostenibile a lungo per lo stesso Ecuador. Gli Stati non possono utilizzare gli istituti di protezione umanitaria o le immunità diplomatiche per tutelare soggetti che abusano di tali istituti per assumere condotte inadeguate. Assange avrebbe continuato a svolgere attività del tutto incompatibili con il suo status di protezione, addirittura contro lo stesso Ecuador, e a coordinare la diffusione di informazioni riservate. Il presidente ecuadoriano lo ha affermato senza mezzi termini, nel suo messaggio. Come può uno Stato tollerare di dare protezione a un soggetto che assume condotte pregiudizievoli verso lo Stato stesso e altri Paesi, per giunta stando all’interno di una propria ambasciata, ed è pesantemente indiziato di reati gravissimi?
Se, oltre alle ragioni di opportunità interne, gli Stati esteri coinvolti dalle condotte di Assange (Regno unito, USA, Svezia e Australia, di cui è ancora cittadino) avessero esercitato pressioni sull’Ecuador per sbloccare la situazione, ciò non meraviglierebbe e non sarebbe certo improprio. Un imputato si processa, non si sottrae alla giustizia abusando delle immunità diplomatiche e degli strumenti di protezione umanitaria, snaturando questi istituti, che hanno tutt’altro spirito e funzione.
Come la decisione del Brasile di consegnare Cesare Battisti all’Italia (compiuta da Jair Bolsonaro ma maturata ancora sotto il suo predecessore Michel Temer), la revoca della protezione a Julian Assange fa sperare in un atteso cambio di passo, sul faticoso cammino con il quale gli Stati dell’America latina tentano di ricostruire la loro piena credibilità internazionale.