Dinanzi alle vittime prodotte dalla battaglia per Aleppo, un’analisi asettica del conflitto siriano può sembrare inopportuna. Ritengo invece che sia urgentemente necessaria. Per chiarezza, limito l’analisi a tre soggetti principali: il regime di Bashar al-Asad, l’autoproclamato «Stato islamico» e le forze che almeno dal 2011 combattono Asad.
Intorno a questo focolaio di guerra ruotano quanto meno tre altri attori: gli Stati uniti, la Russia e un insieme di Stati diversamente amici o nemici tra loro. Tra questi l’Iran, la Turchia e l’Arabia saudita con le monarchie minori del Golfo. Una svolta decisiva, nel conflitto siriano, è giunta con l’intervento della Russia, a fine settembre 2015. Questo non ha avuto solo conseguenze militari. Ha cambiato il modello di analisi secondo il quale dobbiamo interpretare gli eventi.
L’amministrazione di Barack Obama puntava a una soluzione della crisi siriana secondo un approccio prevalentemente idealista. Quando, nelle relazioni internazionali, si utilizza il termine «idealismo,» non bisogna farsi ingannare dalla parola. Gli Stati perseguono in prima linea degli interessi, non degli ideali. Il termine «idealismo» si riferisce a un modo di realizzare gli interessi di uno Stato «che non segue il paradigma di Hobbes e Machiavelli, ma la prospettiva di un rapporto tra Stati improntato al diritto internazionale e alla convenzione diplomatica» (Hartmann, 2001).
Idealismo è agire secondo determinati valori: considerazione verso i principi del diritto internazionale, dei diritti umani e delle istituzioni internazionali. L’elemento idealista, nel rapporto di Obama con la Siria, era l’intenzione di porre fine al regime dittatoriale di Asad e sostenere l’ascesa di forze provenienti dalle fila dell’opposizione. Questo obiettivo corrispondeva naturalmente anche agli interessi geopolitici degli Stati uniti in Medio oriente e veniva perseguito non senza violazioni del principio di non ingerenza. Gli Stati uniti, infatti, sostenevano gli oppositori del regime. Obama, tuttavia, non era disponibile a dialogare con Asad e ad accettare una prosecuzione del suo regime.
Questa strategia non ha funzionato. Asad non è stato detronizzato. Al contrario, il teatro di guerra si faceva ogni giorno più incontrollabile, mentre il gruppo terrorista «Stato islamico» occupava ampie parti di territorio siriano e, a partire dalla città di Ar-Raqqa, dirigeva le sue operazioni nella regione e la rete del terrorismo internazionale.
L’intento di Obama è fallito a causa delle debolezze degli uomini. Obama non è Willy Brand, che fu disposto, per la sua Ostpolitik, a mettere in gioco a proprio rischio le relazioni transatlantiche della Germania federale e i rapporti interni di un continente già diviso. L’idealismo di Obama non è mai stato davvero tale: il Presidente degli USA ha sempre cercato, per le sue visioni idealiste, rappresentate nei suoi brillanti discorsi, una giustificazione razionale secondo il modello della rational choice. Lo si vede anche su altri esempi, tra i quali l’accordo sul nucleare iraniano e le relazioni con Cuba: le sue strategie volavano apparentemente alto, ma poggiavano sempre su un terreno a basso rischio. Si trattava di situazioni win-win, oppure win – lose-just-a-little. Se c’è un perdente, in queste fattispecie, la sua perdita resta sopportabile. I rapporti di forza tra le parti non mutano sostanzialmente e tutte ottengono un qualche vantaggio.
Nel 2012 Obama tracciò una linea rossa: se il regime siriano avesse utilizzato armi chimiche, gli Stati uniti sarebbero intervenuti militarmente. La linea fu superata, ma gli Stati uniti non intervennero. Il costo politico di un intervento in Siria non era sopportabile, per Obama. L’intervento bellico avrebbe rotto l’equilibrio della rational choice. La decisione razionale ha tagliato le ali dell’idealismo.
Gli Stati uniti sarebbero dovuti intervenire per forza? No. Durante la crisi di Cuba, nel 1962, anche l’allora presidente degli Stati uniti J.F. Kennedy tracciò la sua linea rossa: se navi sovietiche avessero violato la «linea di quarantena» intorno a Cuba, gli USA avrebbero risposto con la forza. La qualità degli uomini che seppero dominare quella minacciosa crisi, su tutti i fronti, impedì che la linea rossa venisse superata. Certo, altra storia e altra situazione. Il mondo stagnava in un ruvido confronto tra est e ovest. Tuttavia, i sovietici sapevano con quali uomini avevano a che fare a Washington, e viceversa. Chruščёv era consapevole che Kennedy, se la linea di quarantena fosse stata violata, avrebbe reagito militarmente e rischiato la terza guerra mondiale, senza curarsi dei costi in termini di politica interna di una tale decisione. Dipese da quegli uomini e dal loro talento, se la peggior crisi tra i due blocchi della Guerra fredda poté essere superata senza sparare un colpo.
Oggi sentiamo la mancanza di quegli uomini e dei loro talenti. Asad ha utilizzato nel suo Paese armi chimiche e ha superato la pallida linea rossa di Obama, sapendo che il suo collega statunitense non avrebbe sopportato le conseguenze di un intervento militare. L’amministrazione Obama non è riuscita a farsi venire in mente una soluzione qualitativamente più esigente. Asad non vedeva e non vede null’altro che il suo destino personale e utilizza ogni mezzo per conservare se stesso e il suo sistema di potere. La vista delle parti in causa non arriva oltre.
A fine settembre 2015 comparivano all’orizzonte della Siria aerei militari russi. Sostenevano l’azione del regime di Asad e la sostengono ancora oggi. Vladimir V. Putin è intervenuto nel panorama del conflitto siriano con realismo offensivo. Non è una novità, a quelle latitudini: un modello simile l’aveva applicato in Iraq, nel 2003, George Bush figlio.
Un approccio realista presuppone «un equilibro tra le forze [e] la garanzia della propria esistenza come principio prioritario» (Behrens, Noack, 1984). Un realista «concepisce la politica internazionale come una lotta per il potere e il potere nazionale come proiezione dell’anelito individuale al potere […] Poiché le persone, quando sono parte di un gruppo o di una Nazione, si fanno meno scrupoli di quando agiscono come singoli, la spinta verso il potere esercitata a livello di gruppo o di Nazione prende forme più forti e brutali» (ibid.). Un ordine mondiale definito, guidato da morale e costumi, non esiste, per i realisti: sono decisivi i rapporti di forza. In questo senso, gli obiettivi di potere che gli Stati si pongono vengono perseguiti con perseveranza sulla base delle situazioni esistenti, tenendo nel minor conto possibile le preoccupazioni «estranee.» Considerazioni giuridiche o umanitarie diventano fattori di disturbo e passano in secondo piano.
Obiettivo dell’intervento russo in Siria è la conservazione delle posizioni di controllo russe nella regione attraverso il mantenimento della lunga alleanza con Damasco, iniziata durante il periodo sovietico. Insieme alle attività militari e paramilitari in Georgia e in Ucraina, Putin intende con ciò continuare nell’opera di trasferire sulla Russia il ruolo di superpotenza globale che fu dell’Unione sovietica. In Siria, la Russia difende la sua testa di ponte nel Mediterraneo e una piattaforma strategica nel medio oriente, con una rete di interessi anche nel settore delle risorse energetiche. La permanenza al potere del regime di Asad è una pietra angolare di questa costruzione. Asad mantiene il controllo della Siria, a lui obbediscono pur sempre le leve cruciali dello Stato. Una parte della popolazione, nonostante la brutalità del suo regime, sembra comunque sostenerlo. Il primo passo della strategia di Putin, pertanto, è garantire la conservazione del regime di Asad, al diavolo le chiacchiere dei moralisti.
Il secondo passo è la riconquista delle parti di territorio che sono controllate dai «ribelli» – che si tratti del cosiddetto «Stato islamico» o di oppositori di Asad, per Putin non ha importanza. Per questo motivo, tra altri, gli Stati uniti e la Russia non trovano un accordo sulla questione siriana. Per Putin, la battaglia infuria tra il campo di Asad e un campo «non-Asad,» non importa chi si trovi su quest’ultimo. Obama, al contrario, nel campo «non-Asad» distingueva tra seguaci dello «Stato islamico» e oppositori di Asad. I primi intendeva cacciarli, i secondi erano funzionali al suo scopo, eliminare il regime di Damasco. Se il cambio di regime in Siria, promesso e maldigerito dalla Russia per dopo la fine del conflitto, avverrà effettivamente, non è certo e, in fondo, non ha molta importanza. Dopo aver riconquistato il Paese al regime di Asad, la Russia vi manterrà la sua influenza e metterà al potere a Damasco chi riterrà comodo per sé. L’Iran sostiene il regime a fianco di Mosca, la Turchia è nuovamente un saldo alleato di Putin. L’Arabia saudita e le monarchie del Golfo giocano, per affinità religiosa, dietro al cosiddetto «Stato islamico,» un ruolo mai pubblicamente dichiarato.
Putin, in Siria, non agisce solo secondo realismo, ma con realismo offensivo. Questa variante fu inventata da George Bush figlio dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Uno dei suoi principali elementi è la tristemente celebre «guerra preventiva.» Il realismo classico, quello che contraddistinse l’epoca della Guerra fredda, conservava pur sempre una certa attenzione verso le istituzioni e il diritto internazionali. Le violazioni restavano nei limiti, tra i due blocchi venivano firmati trattati internazionali che venivano generalmente rispettati, le istituzioni globali venivano chiamate in causa, quando la lotta per il potere scivolava fuori controllo. Il realismo offensivo di G. Bush figlio e di V.V. Putin si fonda, al contrario, sull’utilizzo senza scrupoli della forza militare e di ogni altra forma di hard power. Le istituzioni internazionali vengono ingannate, i trattati internazionali semplicemente ignorati.
Putin ha in mente lo stesso modello di George Bush il giovane. La sua guerra siriana non è preventiva, l’intervento della Russia è avvenuto in accordo con il regime di Damasco e con questo argomento Mosca lo giustifica. Se Putin non avesse avuto un amico, al timone della Siria, avrebbe agito ugualmente così. Lo ha fatto in Georgia, in Crimea e nell’Ucraina orientale. Ciò che accomuna il realismo offensivo di G. Bush figlio e quello di V. Putin è il subordinare ogni principio giuridico e morale a una superiore e unilaterale ragion di Stato. In Georgia e Ucraina Putin ha leso militarmente o paramilitarmente l’integrità territoriale di Stati confinanti. Con ciò ha violato dei trattati internazionali che la Russia stessa aveva firmato pochi decenni prima. In Siria vengono rasi al suolo scuole e ospedali. Il diritto internazionale di guerra e i fondamenti del diritto umanitario non vengono rispettati se non nella misura in cui non impediscono il raggiungimento degli obiettivi fissati.
La lotta contro il cosiddetto «Stato islamico» e contro il terrorismo internazionale non è l’obiettivo principale delle azioni della Russia in Siria. Può essere un effetto secondario non indesiderato, il terrorismo di matrice islamica è un problema anche nel Caucaso russo. La battaglia contro i terroristi offre essenzialmente il pretesto idealistico per giustificare l’intervento in Siria. Per la guerra in Iraq di G. Bush figlio, servirono a questo scopo il pretesto di «esportare la democrazia» e la presenza di armi di distruzione di massa, cosa che si dimostrò poi essere una pietosa falsificazione. Gli sviluppi delle ultime settimane ad Aleppo mostrano che anche nell’intervento della Russia in Siria, il ritornello della lotta al terrorismo suona stonato. Putin vuole che Russia e Stati uniti stiano sullo stesso piano, per ristabilire l’equilibro di potenza secondo la logica del realismo classico, o di un neorealismo alla Waltz, con le sue brave zone d’influenza, come nella vecchia Europa divisa.
Bush figlio poté condurre le sue crociate in Medio oriente pressoché indisturbato, gli Stati uniti ne uscirono impuniti. La Russia aggredisce la Georgia e l’Ucraina, conquista a sé intere regioni dei suoi vicini con la forza, lede in Siria i principi del diritto internazionale e umanitario: se si escludono le sanzioni che le sono state comminate dopo gli eventi ucraini, anche Putin ne esce pressoché impunito. Per questo, Vladimir Vladimirovič è così indispettito dalle sanzioni internazionali contro Mosca: «Gli Stati uniti non sono stati sanzionati: perché ora si sanziona la Russia? Io sto solo facendo le stesse cose che faceva Bush!» Gli USA hanno invaso l’Iraq: perché la Russia non dovrebbe fare lo stesso, dove vuole lei? Questo è l’argomento preferito, invero piuttosto infantile, con il quale i leader russi giustificano le attività di Mosca sui teatri bellici attuali.
Sin quando gli obiettivi politici e militari della Russia e di Asad in Siria non saranno raggiunti, non vi è molto da attendersi, in termini di aiuto umanitario alla popolazione. Ci saranno, certo, dei brevi cessate il fuoco, si potrà evacuare e curare qualcuno qui o là. Un approccio realistico-offensivo non contempla la considerazione di questi effetti collaterali. L’obiettivo prioritario resta la riconquista completa della Siria al regime di Asad. Gli Stati uniti non potranno prendere una posizione credibile fino a fine gennaio. Il nuovo Presidente degli USA, del resto, non sembra in grado di riportare la lungimiranza della più potente presidenza del mondo a un valore più elevato. In Europa, l’Alta rappresentante per la politica estera non ha poteri per smuovere alcunché, per tacere dei suoi presupposti personali. I singoli Paesi europei, presi individualmente, possono alzare un po’ di polvere: nei rapporti di forza globali di oggi, da soli non producono alcun effetto.
In gioco c’è tutto il complesso intellettuale del diritto internazionale, in gran parte codificato dopo la seconda Guerra mondiale, proprio allo scopo di evitare lo scoppio di un nuovo conflitto. A febbraio di quest’anno ebbi modo di assistere a Milano a una conferenza presso l’Istituto italiano di studi di politica internazionale ISPI. Parlavano collaboratori della rivista italiana di relazioni internazionali Limes, che dietro la facciata di una pubblicazione scientifica è, di fatto, l’altoparlante per l’Italia delle tesi geopolitiche della Russia. Durante la conferenza, un noto collaboratore della rivista dichiarò: «Cos’è il diritto internazionale? Il diritto internazionale non esiste. È il più forte, che stabilisce il diritto.» Alzai la mano e chiesi espressamente al direttore della rivista se egli, in quanto tale, condivideva l’affermazione del suo giornalista e se questa era da prendere sul serio o da intendersi ironicamente. Rispose, testuali parole: «Sono completamente d’accordo con il mio collega. Il diritto internazionale è un bluff.» Queste idiozie, in quei mesi, si potevano ancora considerare come prodotti di un tragicomico dilettantismo. Dinanzi agli sviluppi ai quali assistiamo sui diversi teatri di combattimento in questa fine d’anno, a quelle affermazioni va dato un significato molto più serio. Cessa l’effetto comico, resta solo quello tragico.
A che serve, un’analisi tecnica degli eventi siriani? Ci permette di riconoscere che i cortei, gli striscioni e gli appelli per il salvataggio della popolazione di Aleppo e altre regioni di conflitto non hanno molto senso. Quando gli eventi cadono nelle macine del realismo, o Realpolitik, le considerazioni umanitarie e giuridiche restano inascoltate. Servono nuovi concetti e nuovi uomini, capaci di capovolgere l’approccio. La situazione sul terreno in Siria e su altri teatri di conflitto nel mondo richiede a tutti noi molto più di qualche onorevole intenzione. Possiamo contribuire a dar forma al mondo nuovo e globalizzato che lasceremo in eredità ai nostri figli. Alla guida dei nostri Stati abbiamo bisogno di uomini capaci di elaborare e attuare una nuova «nuova frontiera», un coraggiosamente critico rapporto con Mosca e un solido concetto per l’Europa. Purtroppo, non ci sono alle viste dei J.F. Kennedy, dei Willy Brandt e dei De Gasperi, nemmeno degli Helmut Kohl o dei Jacques Delors. Se davvero dovessero profilarsi all’orizzonte delle personalità capaci di affrontare le sfide dei prossimi mesi e anni, conquisterebbero i voti degli elettori? Negli Stati uniti è stato eletto un Presidente che incarna il perfetto modello di realismo, e per questo si pone sullo stesso piano di Putin. Ovunque in Europa, con poche eccezioni, i partiti filorussi sono in avanzata. La Brexit indebolisce l’Unione europea, in Italia quasi due terzi di cittadini, durante il recente referendum, hanno spostato il baricentro del loro Paese di un altro passo verso Mosca, ed è probabile che alle prossime elezioni continueranno nella stessa direzione. Il realismo offensivo di Putin vince quasi ovunque.
Gli stessi cittadini che con il loro voto hanno così deciso, sfileranno, urleranno e danzeranno in questi giorni a Londra, a Roma e in America per la pace in Siria e il rispetto del diritto umanitario ad Aleppo. Non vedono quanto questa condotta sia folle e contraddittoria. Del resto, viviamo nell’era post-fattuale. Un’opinione pubblica consapevole, che non si accontenti dei tamburi e degli striscioni, ma scelga i suoi leader con responsabilità, è il grande assente del Terzo millennio. | >Originale in lingua tedesca (traduzione italiana dell’autore)
Martina Schoenig ha detto:
Grazie per questa eccellente analisi! Potrebbe spiegare ancora meglio cos’è che crea questo becero entusiasmo per Putin in moltissimi cittadini europei, anche in quelli della sinistra? E’ la pura manifestazione della forza di Putin, la sua determinazione di far valere i propri interessi senza curarsi del diritto? E’ forse stanca la gente di faticose trattative e aridi compromessi che lasciano tutti insoddisfatti?
Luca Lovisolo ha detto:
Buongiorno Martina, grazie per l’apprezzamento. L’attrazione per Putin è trasversale agli schieramenti. La rimando intanto a >questo articolo, dove trova alcune risposte. Il Suo quesito solleva altri punti, sui quali risponderò con un prossimo articolo. Cordiali saluti. LL