Aiutare i migranti «nei loro Paesi?»

Migranti | © Lydia Geissler
Migranti | © Lydia Geissler

Il flusso di migranti dall’Africa del nord non accenna a diminuire e causa forti discussioni in Europa. Nei dibattiti si parla di aiuto umanitario e di politica d’accoglienza. Non sono questi gli unici e migliori argomenti possibili. L’aiuto umanitario rappresenta solo – per usare un termine preso a prestito dal linguaggio tecnico – l’ultimo miglio di una rete ben più estesa.


Per quanto cinica possa apparire questa considerazione, il continuo ripetere l’appello umanitario innervosisce rapidamente i lettori e gli ascoltatori, non viene quasi più percepito e in molti luoghi suscita rifiuto. I barconi degli immigrati devono affondare con il loro carico? Questa non è, di principio, una grande questione umanitaria. Chi avvista nel Mediterraneo un barcone in difficoltà si trova di fronte a una decisione essenzialmente personale: devo salvarli, oppure voltare la testa e consegnarli così alla morte? E’ una decisione che spetta alla persona, sia essa il capitano di un piccolo peschereccio, un funzionario ministeriale o una guardia di confine. In questo contesto, le considerazioni sociali, politiche e umanitarie non giocano un ruolo prevalente. A essere interrogato è l’Uomo. Valgono le leggi della navigazione e il diritto penale. La domanda non ha così tante risposte, in verità.

Bisogna istituire un blocco navale nel Mediterraneo? Bisogna distruggere i barconi degli scafisti, che con il traffico di esseri umani conseguono enormi guadagni, mentre si trovano ancora nei porti nordafricani? Anche qui non c’entra la questione umanitaria. Un attacco militare nelle acque territoriali di un altro Stato e un blocco navale sono atti di guerra. Queste attività devono essere valutate dal punto di vista militare e del diritto internazionale. Le norme e le procedure sono note. Vogliamo farlo oppure no? Queste azioni porterebbero dei risultati?

Dobbiamo aiutare i Paesi d’origine dei migranti, affinché possano offrire ai loro cittadini un’alternativa credibile all’emigrazione economica o alla richiesta d’asilo? Chi governa quei Paesi? In Libia due governi si contendono il potere. Ampie parti di territorio siriano e iracheno sono dominate da un autoproclamato califfato che disprezza i più elementari diritti umani e ogni principio di diritto moderno. Regioni della Nigeria e dei Paesi circonvicini sono controllate da terroristi. Chi deve ricevere i nostri aiuti? Con quale ministro dobbiamo discutere piani di sviluppo e misure di sostegno? Se troviamo degli interlocutori sul posto, questi possono garantirci che gli aiuti contribuiscano concretamente allo sviluppo dei territori interessati? Che arrivino effettivamente a destinazione? Prima di procedere, bisogna trovare risposte a queste domande.

Il crescente flusso di migranti può suscitare le reazioni più diverse. Una visione meramente umanitaria sembra ogni giorno meno adeguata. Il problema non è quali Paesi dovrebbero ricevere quanti migranti, se lo faranno. Questa è una questione di dettaglio che una comunità europea di Stati con mezzo miliardo di abitanti può risolvere in brevissimo tempo, se vuole.

Piuttosto non dovremmo dimenticare che le migrazioni sono l’effetto collaterale, la conseguenza minore di un contesto internazionale che a quanto pare non viene ancora percepito in tutta la sua portata, e neppure rappresentato adeguatamente dai media. Ci si può certo lamentare del crescente numero di richiedenti l’asilo, ma le conseguenze peggiori degli sviluppi a cui assistiamo oggi in Africa, Medio oriente e persino al confine orientale dell’Europa ci sono state sinora risparmiate.

Una strategia più consapevole, che lasci tutti i dettagli tecnici, come la distribuzione delle quote di migranti, il numero di guardie di confine europee nel Mediterraneo e altri calcoli ragionieristici, ai funzionari competenti, ma punti con serietà alle questioni di fondo, è urgentemente necessaria.

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Luca Lovisolo

Lavoro come ricercatore indipendente in diritto e relazioni internazionali. Il mio corso «Capire l'attualità internazionale» accompagna chi desidera comprendere meglio i fatti del mondo. Con il corso «Il diritto per tradurre» comunico le competenze giuridiche necessarie per tradurre testi legali da o verso la lingua italiana.

Commenti

  1. Achille A. ha detto:

    Grazie infinite per la compiutissima risposta, Luca. Se ora capisco meglio in che modo, in pratica, il diritto si leghi ai migranti e al loro salvataggio, mi pare altresì evidente che la soluzione (nonché la prevenzione) del problema, nel duplice aspetto delle morti in mare e dell’afflusso incontrollato, debba essere politica. Semplificando, lei ritiene dunque che l’Italia e l’Europa tutta sarebbero benissimo in grado di gestire efficacemente la questione, se solo lo volessero? Personalmente, ritengo anch’io che uno Stato non debba fare «accoglienza,» ma che debba salvare chi è in pericolo e riconoscere l’asilo a chi ne ha diritto, sulla base delle leggi locali e delle convenzioni internazionali che tale Stato ha sottoscritto; credo, inoltre, che le migrazioni di massa vadano prevenute con la cooperazione internazionale, attività questa che non dovremmo incominciare solo oggi (Aggiungo, poi, che anche la risoluzione dei drammatici problemi descritti da Marta dovrebbe far parte, e non da oggi, dell’agenda di governo di un Paese civile, e sono d’accordo con Lei che ciò non è in contraddizione con la gestione dei flussi migratori, perché entrambe le politiche fanno parte dell’interesse nazionale). Lei, che vive in Svizzera, potrebbe cortesemente riassumerci l’approccio adottato, in quel Paese, nel differenziare i migranti economici dai richiedenti asilo? I centri di identificazione (o come si chiamano in Svizzera) funzionano, lì? E qual è l’atteggiamento della popolazione locale nei confronti degli asilanti? Un’ultima domanda: lei non crede che per l’Italia la questione sia complicata dall’avere una frontiera meridionale costituita da un braccio di mare? Se uno cerca d’introdursi in Svizzera attraversando di nascosto il confine tra Como e Chiasso, non rischia certo la vita. Gli Svizzeri sarebbero forse un po’ meno efficaci nel tenere sotto controllo il fenomeno, se il Canton Ticino fosse una penisola che si estende nel Mediterraneo?

    • Luca Lovisolo ha detto:

      Buongiorno Achille,

      Non ho dubbi che l’Europa, in presenza della volontà e lungimiranza necessarie, potrebbe gestire i flussi migratori senza suscitare reazioni negative presso i suoi cittadini. Le quote d’ingresso per l’immigrazione economica sono calcolate ogni anno sulla base di criteri oggettivi, commisurati alla capacità di assorbimento di ciascun Paese. Se si resta all’interno di tali quote, il sistema è in grado di inserire l’immigrato e di realizzare sia il suo interesse di trovare occupazione, sia l’interesse dei settori che hanno reale necessità di lavoratori stranieri. Per quanto riguarda i richiedenti l’asilo, le cifre di aventi diritto sono ben inferiori e non in grado di ledere il tessuto sociale di un Continente di mezzo miliardo d’abitanti. Le difficoltà nascono nella fase di ingresso e identificazione. Dopo aver tratto in salvo i naufraghi (poiché di ciò si tratta, in quel momento, ed è un obbligo), bisogna distinguere chi ha il diritto di restare e a quale titolo da chi no ce l’ha e pertanto deve essere rimpatriato. Gli altri Paesi europei vengono spesso tacciati, nel dibattito italiano, di «mancanza di solidarietà» (altra parola fuori luogo, in queste fattispecie), quando si oppongono a ricevere quote ridistribuite di migranti. Certo, vi è una parte di opportunismo, molti governanti si confrontano con opinioni pubbliche contrarie all’immigrazione e agiscono per non alienarsi i favori dell’elettorato. Ciò non fa loro onore, poiché il tratto di chi è eletto a responsabilità di governo dovrebbe essere il saper guardare più lontano del cittadino che lo vota, ma questo è un altro discorso. La più grande preoccupazione degli altri Paesi è che a essere ridistribuiti non siano immigrati dei quali è già stato accertato il diritto di restare in Europa, ma tutti quelli che sfuggono alle maglie larghe della macchina di identificazione italiana e alle scarse capacità della Penisola di controllare il suo stesso territorio. La Sua provocazione di un Canton Ticino «sul mare» non è poi così lontana dalla realtà. Un numero crescente di migranti viene colto alle frontiere svizzere dopo che ha attraversato tutta l’Italia senza incappare in alcun controllo e senza esservi stato identificato, perciò è un po’ come se l’Italia effettivamente non ci fosse. Proietti questa condizione sulla prospettiva europea e capirà perché la Francia, L’Austria e altri Paesi storcono tanto il naso e mandano le loro guardie a controllare i treni al confine. L’identificazione del migrante va svolta dal Paese di primo ingresso: se questa non funziona, se dove funziona poi non funziona il meccanismo di rimpatrio, diventa un problema per tutti. Il procedimento di identificazione presenta difficoltà oggettive, ma almeno le peggiori pastoie burocratiche si potrebbero snellire: la Svizzera, per rispondere alla Sua domanda, ci prova. Il sistema di identificazione e accertamento è sottoposto a grande pressione anche qui e spesso il tema è al centro di critiche, ma la macchina amministrativa generalmente risponde bene, i centri di registrazione (come si chiamano qui) sono più ordinati e distribuiti sul territorio. Ciò evita, per quanto possibile, concentrazioni socialmente pericolose. La grande differenza, rispetto all’Italia, è la severità verso i clandestini. Non è facile, in Svizzera, aggirarsi a lungo sul territorio se si è stranieri e non si ha titolo di esserci. Con discrezione, ma la macchina della sorveglianza funziona. Chi ne ha diritto entra e resta, con tutte le opportunità dovute. Chi non ha diritto, cade in un illecito penale e, poiché i tribunali e il sistema dei rimpatrii funzionano anche abbastanza in fretta, viene espulso, se previsto nel suo caso. Tutto ciò si potrebbe fare anche in Italia, ma non se ne è capaci o non lo si vuole, o si preferisce confondere la tolleranza verso i clandestini con la «solidarietà,» dando la colpa a tutti gli altri Paesi «cattivi» che non condividono questa curiosa e disimpegnata visione del diritto. Questa situazione non cambierà rapidamente, poiché non è causata principalmente da questioni legali o amministrative. E’ un problema di cultura, che, malintendendo la parabola del figliuol prodigo, finisce col dare più «solidarietà» a chi sbaglia, aggirandosi come clandestino in un Paese dove non ha titolo per stare, che alle tante Marta che, purtroppo, contrappuntano la quotidianità italiana, ma anche rispetto ai molti stranieri che entrano avendone diritto, per i motivi più diversi, e contribuiscono al benessere comune. Questo problema di cultura, tutto italiano, come Lei sa non riguarda solo l’immigrazione. Il male è profondo. La guarigione, se sarà, sarà lunga. Cordiali saluti. LL

  2. Marta ha detto:

    Mi scusi ancora Luca, ma mi sembra molto discutibile la risposta per cui è meglio che un italiano muoia di fame sotto un ponte piuttosto che un africano ucciso dai tagliateste. Sembra che Lei voglia fare una classifica di quale morte sia la migliore e quale la peggiore… Intanto in Italia dovrebbero essere preminenti i diritti degli italiani. Gli altri vengono dopo. Se rimane ancora qualcosa. I nostri genitori, i nostri nonni hanno combattuto per ricacciare nei loro Paesi gli invasori (e cominciamo a chiamare le cose col loro nome) e poter dare un futuro migliore ai loro figli e nipoti:noi. Lei come chiamerebbe una donna che già avendo numerosi figli a cui non riesce a dare né cibo, né un letto, né le cure mediche… continua ad accoppiarsi allegramente e figliare promettendo ai nuovi figli una vita migliore togliendo ancora e ancora ai primi figli disgraziati? Io la chiamerei in molti modi che non Le sto qui ad elencare. Uno Stato deve occuparsi dei suoi figli. Poi, se a fine anno avanza qualcosa, ben vengano le donazioni alle varie associazioni sparse per il mondo. Ma solo dopo ed eventualmente. Chi arriva fino a qui sui barconi non sono i bambini denutriti, quelli resteranno a morire nel deserto. Chi arriva qui sono i borghesi panciuti con migliaia di euro in tasca da dare agli scafisti. Perché? Perché qui si regala tutto pur di fare bella figura. E l’Italia promette vitto, alloggio, telefonino che va su internet e sigarette di marca… senza fare nulla dalla mattina alla sera. Si tratta quasi sempre di persone senza una professionalità a livello europeo, senza una buona scolarizzazione. Donne perennemente nullafacenti e dalla gravidanza facile. Uomini rissosi che preferiscono la delinquenza al duro lavoro. Perché, ricordiamocelo, in Africa sono pochi quelli che vivono le difficoltà del deserto. Là ci sono fiumi, laghi, terre fertili, animali di tutti i tipi. Basterebbe lavorare per avere tutto quello che serve. Invece è proprio la voglia di lavorare che là manca. Scappano, da chi? Da loro stessi. Da nazioni che loro stessi non hanno saputo educare, controllare, gestire. Fazioni da sempre in lotta che continueranno a farsi le stesse lotte qui da noi, se dovremo accogliere cani e porci. La libertà è una lotta. Che loro non vogliono fare perché tanto qui si campa gratis. In attesa che Lei mi suggerisca la morte più leggera per me e mio figlio (perché laddove io dovessi perdere le mie lotte, è questo il futuro che ci aspetta, anche se ai benpensanti come Lei queste parole sono brutte da sentire), Le auguro una buona giornata.

    • Luca Lovisolo ha detto:

      Buongiorno Marta. Non ho fatto classifiche: ho detto che le due situazioni hanno basi oggettive diverse, non sono assimilabili e comunque vanno risolte entrambe, cosa perfettamente possibile, solo avendone la volontà politica (che, in parole semplici, significa averne la voglia). Concordo ampiamente anche sulle Sue considerazioni in merito alla debolezza degli Stati africani e sull’attitudine delle loro popolazioni: non dimentichiamo, però, che una parte (ma solo una parte) di quella debolezza dipende da una dissennata colonizzazione e decolonizzazione europea. Quegli Stati sono fragili non solo a causa della mancanza di formazione e impegno dei loro abitanti, ma anche perché non hanno basi identitarie, sono, quasi tutti, nazionalità costruite a tavolino dai colonizzatori. Vero che questo argomento vale sempre meno, perché dalla loro indipendenza sono passati ormai più di cinquant’anni, cioè quasi tre generazioni. Alcuni di essi cominciano a funzionare: i cittadini del Kenya, della Tanzania, del Ghana e altri non scappano o scappano molto meno, le istituzioni di questi Paesi non sono certo perfette, ma cominciano a funzionare e a controllare il territorio, a costruire una comunità. Il quadro, perciò, è più variegato di quanto sembra. Non vi sono dubbi, poi, che la legge di uno Stato sia rivolta ai cittadini di quello Stato, è nella sua stessa natura di contratto sociale. Il problema non sta lì. Come ho cercato di spiegare, se si applicassero le norme di legge esistenti, forse la questione dei migranti non si porrebbe neppure. Ci sono richiedenti l’asilo che hanno diritto a protezione (una minoranza), e va loro data per legge, fino a quando ne sussistono i presupposti, poi devono tornare ai loro Paesi. Ci sono migranti economici (la maggioranza), che, se non sono compresi nelle quote d’immigrazione previste per legge o se non trovano lavoro in Europa, vanno semplicemente rimandati ai loro Paesi. Non c’è bisogno di scomodare l’accoglienza, la solidarietà, il Papa o Belzebù. Se la macchina amministrativa che gestisce questi flussi funzionasse, dei migranti forse non ci accorgeremmo neppure: entrerebbero in misura calcolata e distribuiti sul territorio, si potrebbe dar loro l’assistenza prevista dalla legge senza causare il comprensibile scontento di chi, come Lei, vive situazioni di disagio nel proprio Paese. Il problema nasce in gran parte dall’incapacità, tutta italiana, di accertare le posizioni dei migranti in tempi ragionevoli, di fare rimpatrii efficaci e di avere credibilità in Europa, dove di Roma nessuno si fida molto, per varie buone ragioni. Prova ne sia che nei Paesi europei dove l’amministrazione funziona, il problema dei migranti esiste sì, ma è assai meno bruciante. Poi c’è tutta la questione dello sviluppo dei Paesi africani, al quale è nostro interesse contribuire con lungimiranza, poiché, se li lasciamo crollare, le conseguenze piovono comunque su di noi. Anche questo si potrebbe fare non sottraendo risorse all’assistenza di chi, come Lei, è in difficoltà in casa propria, ma con mutuo vantaggio, applicando una cultura di cooperazione che richiederebbe, però, un’intelligenza che nei Governi oggi è merce rara. Non suggerisco morti leggere o pesanti, spiacendomi di essere stato evidentemente frainteso. Le auguro invece di superare presto un momento per Lei evidentemente molto difficile, in un Paese che per lentezza amministrativa, discredito internazionale e tendenza alle chiacchiere inutili è il meno adatto a gestire la situazione migratoria attuale, che storicamente ha pochi precedenti. Me ne dispiace, poiché, pur vivendone fuori per lavoro, dell’Italia sono cittadino anch’io. Cordiali saluti. L.

  3. Marta ha detto:

    Interessante articolo. Le dico la mia opinione. Quella di donna quarantenne, disoccupata, mamma sola di un bimbo in tenera età. Viviamo per ora del mio misero assegno di mobilità e di qualche ora al mese di ripetizione a ragazzi benestanti e poco volenterosi. Nessuno mi paga una stanza in un albergo, ma devo pagare puntualmente la rata del mutuo, e se dovessi ritardare di pochi giorni verrei iscritta sul libro nero dei cattivi pagatori con conseguenze perenni. Nonostante una laurea a pieni voti presa senza frequentare poiché fortunatamente lavoravo 60 ore la settimana per campare (ebbene sì… anche noi italiani spesso veniamo pagati 4 euro l’ora, ma la cosa non fa rumore…), non c’è lavoro. Nulla. E l’assistente sociale ai minori, invece di offrire un qualche misero aiuto, mi ha costretto a fare frequentare al bimbo il nido, per ovviare alla mancanza paterna e aiutarlo a socializzare. Quindi altri 250 euro al mese da trovare. Mi sto indebitando sempre più, conto i biscotti che mangiamo io e il bimbo, compero solo cibo con il 50% di sconto per l’imminente scadenza. Ci chiudiamo in casa (almeno fino a quando l’abbiamo) perché uscire vuol dire spendere benzina, o comunque trovi sempre qualche conoscente che ti invita al bar o a qualche serata in famiglia…. che ti costerà il fatto di dover ricambiare il favore. Tanto il bimbo al nido non lo sto mandando più, visto il fatto che i soldi per la benzina per portarcelo sono finiti, e attendo che la tirata di orecchi dell’assistente sociale diventi una segnalazione. Che cosa c’entra col problema dei migranti? Che gli italiani si sono rotti le palle di finire per strada mentre gli ultimi arrivati, gente senza né arte né parte, senza istruzione, senza professionalità, e senza voglia di lavorare (andate a vivere un poco nei loro paesi e vedete che «anda» tengono) arrivano con le Nike ai piedi e il telefonino che va su internet (entrambe cose mai viste qui da me) e pretendono casa, cibo, vestiti nuovi, scheda per il telefonino e soldi per le sigarette. Attenzione che il buonismo sta finendo. Non ci sono soldi per dare lavoro e un reddito dignitoso agli Italiani, ma si trovano soldi per questa gente. Strano, no?

    • Luca Lovisolo ha detto:

      Pubblico integralmente il Suo commento, ringraziando, poiché dimostra, se ve ne era bisogno, che la questione dei migranti non può essere presentata insistendo troppo sul lato umanitario, poiché finisce con lo scontrarsi con le altre emergenze sociali presenti sul territorio. Dietro alle Sue difficoltà (che sono drammatiche, ma pur sempre inferiori a quelle di chi fugge da guerre e tagliatori di teste) ci sono cause di tipo prevalentemente interno italiano, che vanno affrontate e risolte. Dietro agli sbarchi dei migranti vi sono altre cause: il salvataggio in mare non è una scelta negoziabile, è un dovere giuridico, come ho spiegato; tra i migranti vi è chi realmente fugge da persecuzioni, a questi l’asilo politico va dato per legge nazionale e convenzione internazionale, ma vi è anche chi viene per ragioni economiche: per questi si può decidere, se farli entrare oppure no. Un solo esempio: se la macchina amministrativa che permette di distinguere tra queste due categorie e rimpatriare i non aventi diritto funzionasse meglio, sarebbe risolta una gran parte del problema, che non esiste solo in Italia, ma anche qui in Svizzera e altri Paesi. Poiché gli accertamenti sono lenti e male organizzati, in attesa delle risposte i migranti diventano una presenza costosa e ingombrante, bighellonano qui e là, alcuni delinquono, altri fanno perdere le loro tracce. La Sua situazione e quella dei migranti hanno retroterra sociali e nature giuridiche diverse, non sono comparabili e, pertanto, neppure concorrenziali. Vanno risolte entrambe, ciascuna sul suo piano. Poiché mancano le capacità e le volontà di farlo, si maschera la situazione dei migranti parlando di «accoglienza,» che nel contesto della migrazione non è che una componente dell’insieme, poiché si tratta prima di tutto di una questione giuridica, politica e di relazioni internazionali. Sentir parlare di «accoglienza,» però, scatena le comprensibili ire di chi, come Lei, combatte con la quotidianità nel proprio Paese, portando in concorrenza sullo stesso piano questioni che hanno origini e nature diverse. Auguri e cordiali saluti.

  4. Achille A. ha detto:

    Vorrei che mi aiutasse a capire in che modo, nel quadro da lei descritto, entra in gioco il diritto penale. Supponendo che la decisione di salvare dei migranti in pericolo sia, come lei scrive, fondamentalmente personale, e che io capitano di una nave civile possa anche scegliere di ignorarli, sarò perseguibile se non presto loro aiuto? E il fatto che io venga perseguito dipende solo dal fatto che qualcuno (e chi?) possa denunciarmi e che io sia giudicato colpevole del reato di mancato soccorso? E se io non offro il mio aiuto e «tiro diritto,» lasciando che il barcone affondi con tutti i migranti (e nessuno può o vuole denunciarmi), dal punto di vista giuridico la questione può dirsi chiusa? Grazie dell’attenzione e – al di là della questione specifica – complimenti per il suo lavoro.

    • Luca Lovisolo ha detto:

      Buonasera Achille,

      Grazie per il Suo apprezzamento e lo stimolante commento. Tento di rispondere in sintesi. Le variabili sono molte, innanzitutto il luogo in cui avviene l’incontro con le persone in pericolo, che può trovarsi in acque internazionali, in acque territoriali oppure sulla terraferma, quando dei migranti, non in condizioni di provvedere a se stessi, approdano perché il loro barcone si è sfracellato sulla costa. L’obbligo di prestare soccorso a imbarcazioni e persone in pericolo è regolato da specifiche convenzioni internazionali. Cito per esemplificazione la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (UNCLOS), all’art. 98 cpv. 1: «Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: (a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita […]». In caso di violazioni si può adire un’apposita sede arbitrale internazionale, che però decide sulla condotta degli Stati, non dei singoli. Alle conseguenze penali per i singoli provvede, prendendo ad esempio l’Italia, il Codice della navigazione, che dispone all’art. 489: «L’assistenza a nave o ad aeromobile in mare o in acque interne, i quali siano in pericolo di perdersi, è obbligatoria, in quanto possibile senza grave rischio della nave soccorritrice, del suo equipaggio e dei suoi passeggeri […] quando a bordo della nave o dell’aeromobile siano in pericolo persone […]». Al successivo 490: «Quando la nave o l’aeromobile in pericolo sono del tutto incapaci, rispettivamente, di manovrare e di riprendere il volo, il comandante della nave soccorritrice è tenuto, nelle circostanze e nei limiti indicati dall’articolo precedente, a tentarne il salvataggio, ovvero, se ciò non sia possibile, a tentare il salvataggio delle persone che si trovano a bordo. È del pari obbligatorio, negli stessi limiti, il tentativo di salvare persone che siano in mare o in acque interne in pericolo di perdersi.» Quanto alle sanzioni, lo stesso Codice della navigazione contiene disposizioni penali che recitano, in particolare all’art. 1158: « Il comandante […] che omette di prestare assistenza ovvero di tentare il salvataggio nei casi in cui ne ha l’obbligo a norma del presente codice, è punito con la reclusione fino a due anni […]». Quanto al codice penale ordinario, è immediato pensare alle disposizioni sull’omissione di soccorso: «Chiunque, trovando abbandonata o smarrita […] un’altra persona incapace di provvedere a se stessa […] omette di darne immediato avviso all’autorità è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 2.500 euro.» (art. 593 CP IT). Vanno anche ricordate le fattispecie della tratta di persone e altri reati commessi dai cosiddetti «scafisti», con i quali, a chi non soccorre un’imbarcazione oggetto di tale traffico, potrebbe essere contestato un concorso, ma qui ci addentriamo in aspetti che richiederebbero più dettaglio tecnico. Le fattispecie che ho citato sono procedibili d’ufficio: non è necessario, perciò, che alcuno depositi una querela. Tutto ciò non tocca ancora la disciplina dell’asilo politico o della migrazione economica, che entrano in gioco dopo: la prima priorità è il salvataggio delle persone in pericolo. Il loro eventuale diritto a restare sul territorio dello Stato è oggetto di accertamento successivo e distinto. La materia, come vede, è complessa e non priva di un certo fascino. Sono certo che un giurista specializzato in diritto del mare saprebbe citare molto altro, ma le basi sono queste. Il mio riferimento, nell’articolo, ha lo scopo di ricordare che il salvataggio in mare non è un fatto da ricondurre a «generosità» o a spirito di accoglienza, pur nobili, ma risponde a principi di responsabilità e punibilità personali. Cordiali saluti.

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Luca Lovisolo

Lavoro come ricercatore indipendente in diritto e relazioni internazionali. Con le mie analisi e i miei corsi accompagno a comprendere l'attualità globale chi vive e lavora in contesti internazionali.

Tengo corsi di traduzione giuridica rivolti a chi traduce, da o verso la lingua italiana, i testi legali utilizzati nelle relazioni internazionali fra persone, imprese e organi di giustizia.

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