Queste considerazioni riguardano un uso specifico del termine inglese failed, l’espressione failed state. Una definizione che troviamo con frequenza sui giornali e nei testi che si riferiscono all’attualità internazionale. In italiano, la traduzione più comune è Stato fallito. Da sola, questa traduzione può non bastare, per trasmette al lettore il significato autentico di failed state.
L’attualità internazionale porta alla nostra attenzione Stati che lottano per la propria esistenza: l’Africa è il continente nel quale ne troviamo in maggior numero, ma anche l’America latina e persino l’Europa contano o hanno contato nel recente passato esempi di Stati la cui sopravvivenza come soggetti del diritto internazionale, capaci di governare un territorio, è cessata o si è interrotta per certi periodi. Un esempio paradossale ma utile: alcuni anni fa, in coincidenza con i peggiori attentati terroristici di matrice islamica in Europa, alcuni analisti suggerivano che il Belgio, in difficoltà a reprimere l’attività delle cellule terroristiche sul suo territorio, si dovesse assimilare a un failed state (ad esempio: >qui).
Dai media di lingua italiana questa espressione è generalmente resa come Stato fallito (ecco un >esempio). Qui non discutiamo se la definizione di failed state sia più o meno adeguata a questo o quel Paese, ma ci concentriamo sulla questione linguistica.
Un failed state, per la disciplina delle relazioni internazionali, è uno Stato che ha fallito nell’adempiere il suo compito principale, cioè garantire l’ordine e la sicurezza (v., tra molti altri: Völkerrecht, a cura di W.G. Vitzthun, 2010, III, 85). E’ uno Stato che non riesce a controllare il suo territorio, perché presidiato da ribelli, criminalità e altri poteri non statali; oppure perché attraversato da lotte fra potentati locali, gruppi etnici e linguistici, ma anche a causa di catastrofi naturali di eccezionale gravità. Con questi presupposti, un failed state non è in grado di garantire sicurezza e servizi ai cittadini, di pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici, di assicurare il funzionamento del sistema sanitario. Non è neppure in condizioni di rispettare i suoi obblighi internazionali.
Secondo la celebre definizione di Max Weber (in: Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der verstehenden Soziologie, 1911/20) e per il successivo sviluppo del diritto internazionale, secondo il tradizionale principio di effettività uno Stato esiste quando a) esercita un controllo su un territorio, b) dispone di una popolazione stanziata su questo territorio, c) amministra tale popolazione per mezzo di un apparato di governo e d) è in grado di intrattenere relazioni con altri Stati (quest’ultimo punto è detto sociabilità, in inglese sociability, cfr. A. Gioia, Diritto internazionale, Milano, 2013 e G. Sperduti, Lezioni di diritto internazionale, 1958). Il failed state è uno Stato nel quale vengono meno queste quattro colonne fondanti della sua esistenza.
Sono o sono stati esempi di failed state la Somalia dopo la caduta di Siad Barre (1991), la Libia dopo la morte del colonnello Gheddafi (2011), la Bosnia-Erzegovina dopo la guerra intestina fra i popoli della ex Federazione jugoslava. Stati che cessano nei fatti di esercitare la loro azione, talvolta dissolvendosi del tutto: con un esempio banale, ma che rende l’idea, chi volesse chiamare al telefono il primo ministro o una qualunque autorità di un failed state non saprebbe più che numero comporre, sempre che vi funzionasse ancora il servizio telefonico.
Simile, ma meno grave, è il caso dei failing state, Stati che non hanno ancora cessato completamente la loro azione, ma pendono pericolosamente sul crinale del precipizio, tanto da rendere spesso difficile distinguere tra failing e failed (si veda, tra i molti possibili esempi, il caso della Repubblica centrafricana fino al 2014).
L’espressione failed state va letta allora in un senso più ampio di una difficoltà dello Stato di agire su singoli fronti o della sua incapacità di rimborsare i creditori, alla quale pensiamo più comunemente quando leggiamo il termine fallito. Potrebbe darsi, paradossalmente, il caso di un failed state non esposto a fallimento finanziario, ma incapace di esercitare la sua sovranità e funzione per ragioni meramente politiche, etniche o territoriali.
Al contrario, nel 2001 L’Argentina fu ripetutamente definita dai media Stato fallito, poiché si dichiarò incapace di rimborsare i creditori che avevano acquistato i suoi titoli pubblici (molti ricorderanno la triste vicenda dei Tango bond). L’Argentina non fu, però, un failed state: pur con tutte le difficoltà del caso, infatti, l’apparato dello Stato argentino continuò a funzionare, ad amministrare il territorio e a esercitare la sua sovranità interna ed esterna. Si trattò, per maggiore precisione, di un default finanziario – per dirlo in italiano, di un caso di insolvenza.
Non è pregiudizialmente errato tradurre l’inglese failed state con Stato fallito: occorre però accertare che il destinatario non vi legga un’affermazione qualunque, ma riesca a recepirne il pieno portato semantico appena descritto. Talvolta può essere preferibile rinunciare alla traduzione. Una soluzione intermedia, quando praticabile, può essere quella di riportare il termine tecnico inglese vicino alla traduzione italiana.
Per citare un esempio, ho utilizzato questo espediente in un articolo di questo blog, non per failed state, ma per un’altra insidiosa locuzione inglese, rational choice. Per avere la certezza che chi legge comprenda che il testo si riferisce non a una qualunque scelta razionale, ma a quella specifica teoria analitica delle relazioni internazionali, nota anche in sociologia, definita rational choice, senza però lasciar solo il lettore dinanzi a un anglicismo, ho affiancato i due termini: «Alla base della svolta nelle relazioni tra gli USA, la comunità internazionale e l’Iran vi è una scelta razionale, un processo di rational choice» (testo completo: >qui).
Sarà il caso specifico a suggerire come meglio procedere: l’importante è che non si perda il valore aggiunto che ogni termine intraducibile porta con sé in forza del suo specifico retroterra.
(Articolo pubblicato in originale il 12.4.2016, ripubblicato con aggiornamenti il 19.11.2019)
Silvia Pellacani says:
Grazie Luca per questa riflessione puntuale e documentata, uno dei tuoi migliori articoli di sempre. Utile per l’ambito specifico del diritto e delle relazioni internazionali, ma anche per ogni lavoro di traduzione e scrittura. Grazie per aver sottolineato il valore del «bagaglio» che le parole portano con sé e l’importanza di tradurre e scrivere in modo che il destinatario comprenda il pieno significato dei termini e il loro retroterra culturale.
Fausto says:
Salve Luca,
Nel caso di «fallito (failed)» non credo che la soluzione bilingue aiuti a comprendere il significato di fallire e failed nei sensi rispettivamente di «non riuscire nel proprio intento» (Garzanti) e «The action or state of not functioning» (Oxford). Per me funzionerebbe meglio una perifrasi per spiegare meglio il concetto, ma che ovviamente resterebbe al «buon cuore» del redattore o del traduttore. Quanto a rational choice, un’alternativa a lasciarlo in inglese per indicarlo come teoria analitica potrebbe essere di usare le iniziali maiuscole. La terminologia inglese rischia infatti di confondersi, nonostante la diversa motivazione, con quella valanga di espressioni inglesi che negli ultimi anni hanno letteralmente invaso i media e le menti italiane e che, secondo me, rispecchia lo scarso amor proprio degli italiani (ma per parlare di questo ci vorrebbe un articolo a parte).
Cordiali saluti
Kristina says:
Grazie Luca, lettura come sempre molto interessante.