Sebbene la Costituzione permetta solo due mandati, alle elezioni dello scorso ottobre Evo Morales si è presentato per la quarta volta. Di fronte alle proteste, ha lasciato il Paese. La sua condotta spezza molte speranze e insegna qualcosa anche all’Italia. Morales ha dei meriti per le azioni a favore delle popolazioni indigene, ma ha applicato le ricette di tutti i regimi autoritari dell’America latina.
Dovrebbe essere chiaro, ma non lo è per tutti: in Bolivia non è accaduto alcun colpo di Stato. Evo Morales, il presidente in carica dal 2006, ha promulgato nel 2009 una nuova Costituzione. Questa prevede, per la carica di capo dello Stato, un massimo di due mandati. Lui ne ha svolti tre, affermando che il primo non andava conteggiato perché iniziato quand’era ancora in vigore la Costituzione precedente: il ragionamento era forzato, ma è stato accettato. Nel 2016, desideroso di non lasciare il potere nel 2019, anno di scadenza del terzo mandato, ha indetto un referendum per modificare la Costituzione da lui stesso voluta e abolire il limite: la popolazione ha bocciato la proposta.
Nonostante ciò, alle elezioni presidenziali dello scorso ottobre Morales si è ripresentato per la quarta volta. La Corte costituzionale, largamente influenzata dal suo partito, ha reso possibile questa candidatura affermando che il limite di mandato avrebbe violato i diritti fondamentali di Morales. Questa decisione contiene una evidente contraddizione.
Poiché il limite era previsto dalla Costituzione voluta da lui stesso, bisogna ritenere che Morales abbia compiuto una violazione dei diritti fondamentali verso sé medesimo.
Dopo le elezioni presidenziali, svoltesi nelle settimane scorse, Morales ha osservato che il risultato gli era sfavorevole e lo avrebbe costretto a un ballottaggio, prevedibilmente infausto. Il conteggio dei voti è stato fermato e una manina provvidenziale ha modificato lo spoglio, dando a Morales il margine necessario per vincere al primo turno. La manomissione è stata accertata dagli osservatori dell’Organizzazione degli Stati americani.
Di fronte all’evidenza e al crescere delle proteste per la sua condotta, constatato anche il rifiuto opposto da esercito e polizia a rispondere al suo governo, Morales si è dimesso ed è fuggito dal Paese. Insieme a lui, con un accesso di cinismo, si sono dileguati tutti i funzionari che ricoprivano le più alte cariche istituzionali. L’esito è che oggi in Bolivia non si può neppure nominare un capo provvisorio dello Stato, poiché chi dovrebbe subentrare in questa carica è uccel di bosco.
Il potere è stato assunto, per analogia iuris, dalla più alta funzione istituzionale rimasta sul posto, la signora Jeanine Áñez, vicepresidente del Senato. E’ vero che non è lei, quella che dovrebbe sostituire il presidente in caso di mancanza, secondo la Costituzione, ma chi dovrebbe farlo non c’è. Vero anche che la signora Áñez ha preso il potere da sola, ma ciò è avvenuto perché i deputati seguaci di Morales non si sono presentati in parlamento per votarla, facendo mancare il numero legale. Con il loro comportamento, Morales e il suo clan hanno precipitato il Paese nella confusione istituzionale. Si assiste ora all’acuirsi degli scontri di strada e all’estremizzarsi di ogni possibile conflittualità.
Altro che colpo di Stato. Un presidente che non accetta neppure le regole che ha promulgato lui, si ripresenta per un quarto mandato quando potrebbe svolgerne non più di due, ignorando il risultato di un referendum in cui la popolazione gli ha negato di rimuovere questo limite, perciò gli ha detto esplicitamente di non ricandidarsi. Eppure, prontamente hanno preso a circolare per la Rete, anche da fonti non sconosciute, notizie che presentano i fatti come un golpe contro gli interessi del popolo boliviano e – poteva mancare? – come complotto per aggiudicarsi le ricchezze minerarie del Paese. L’italiana RaiNews24, questa mattina, ha mandato in onda un servizio surreale nel quale i fatti di Bolivia venivano descritti tout court come colpo di Stato, senza precisare che questa è solo l’interpretazione che ne dà il protagonista, cioè lo stesso Morales. I fatti dicono che chi stava tentando di sovrapporre all’ordine costituzionale il potere suo e della sua cerchia era proprio lui.
Non meraviglia: la tesi del colpo di Stato è quella sostenuta da tutti i Paesi ideologicamente vicini al regime di Morales, di orientamento socialista. Tra questi, l’immancabile governo del Venezuela, che trova il tempo per occuparsi di tutto meno che delle penose condizioni in cui ha ridotto la propria popolazione. Si aggiunge il Messico, da poco governato da un presidente ideologicamente contiguo, che ha dato a Morales asilo politico (?). Principale diffusore della tesi del colpo di Stato boliviano, però, è la Russia: i media di Mosca, ignorando del tutto gli aspetti costituzionali che ho spiegato sopra, dipingono da giorni Morales come presidente legittimamente rieletto e costretto alla fuga da gruppi di estrema destra e neofascisti (con il sostegno dell’Ucraina, precisa fantasiosamente la trasmissione di approfondimento «60 минут»).
Non è strano, perciò, che la TV italiana riprenda la tesi che soffia da Mosca. Tanto quanto in Europa il Cremlino fiancheggia partiti populisti e di destra, altrettanto sostiene in America latina quelli di orientamento marxista-leninista. Ciò testimonia ancora una volta che l’interesse di Mosca non è guidato dall’ideologia. Il Cremlino sostiene qualunque forza in cui veda un proprio interesse geopolitico e uno strumento per i suoi progetti di influenza.
La condotta di Morales spezza molte speranze e insegna qualcosa anche all’Italia di questi giorni. Primo presidente indigeno dell’America latina, Morales si è guadagnato dei meriti per le azioni a favore delle popolazioni locali, per la promozione delle lingue e culture etniche; ha conseguito qualche progresso nella crescita e nella miglior distribuzione delle ricchezze, contro gli abusi delle multinazionali statunitensi. Meno massimalista e teatrale di Hugo Chávez, il presidente boliviano ha però applicato le stesse ricette del suo compare venezuelano e degli altri regimi autoritari del continente: in particolare, ha nazionalizzato le risorse del Paese, ottenendo, pur in modo meno evidente e drammatico, lo stesso risultato che si osserva in Venezuela. Anche la Bolivia è un Paese che siede su ricchezze naturali immense, ma nel quale la popolazione soffre di povertà e disuguaglianze non tollerabili.
La nazionalizzazione è la ricetta preferita, per i retori delle soluzioni facili. Anche in Italia, in questi giorni, circola con sempre maggiore insistenza l’ipotesi di nazionalizzazione dell’ILVA. Storditi dal miraggio della collettivizzazione dei mezzi di produzione, troppi chiacchieroni sono ancora convinti che nazionalizzare un’impresa significhi ridistribuirne il reddito sulla collettività. Salvo pochissime eccezioni, la nazionalizzazione trasforma le imprese in carrozzoni che alimentano sprechi, corruzione e vantaggi per pochi, anzi pochissimi; intanto, dilapidano risorse pubbliche per restare attive anche quando sono improduttive e scoraggiano gli investitori internazionali. L’esito può essere qualche successo iniziale, seguito da un inevitabile collasso.
E’ illusorio, che gli Stati dell’America latina possano diventare come le monarchie petrolifere del Golfo, dall’Arabia saudita in giù, dove le ricchezze ricavate dalla vendita del petrolio sono gestite da imprese statali che le ridistribuiscono in servizi sociali; senza dimenticare che questa organizzazione presuppone, anche nei Paesi in cui funziona, l’esistenza di regimi dittatoriali assoluti che controllino con il pugno di ferro i processi economici e sociali conseguenti. Le imprese petrolifere del Golfo, più che imprese di Stato, sono in realtà aziende familiari in capo ai monarchi; la ridistribuzione degli utili sui servizi pubblici non ha nulla di filantropico, serve a garantire la quieta sottomissione dei sudditi alle famiglie regnanti.
Si può affermare, a ragione, che le multinazionali statunitensi hanno causato povertà, schiavitù e disastri ambientali in tutta l’America latina, perciò è sacrosanto opporsi alla continuazione di questo scempio. La nazionalizzazione non è la soluzione, anche se è facile da vendere come toccasana agli elettori. Occorrono, piuttosto, l’intelligenza tecnica, la capacità giuridica e la credibilità politica per creare un terreno favorevole agli investitori privati, ma, nel frattempo, indicare a questi un quadro di regole chiare entro il quale devono operare, salvaguardando ambiente, salute e impieghi.
Le astratte crociate «contro le multinazionali» non servono a nessuno: eppure, proprio ieri, anche in Italia il capo politico del partito di maggioranza relativa, riferendosi al caso ILVA, affermava che «bisogna combattere le multinazionali,» usando le stesse parole di tutti i Chávez, Maduro e Ortega che la Storia ricordi. Poche altre affermazioni rendono più evidente che ormai l’Italia va osservata indossando gli stessi occhiali che si usano per l’America latina.
Di fronte al caso Morales, ancora una volta il mondo si è illuminato e ha disposto i suoi colori come un caleidoscopio. La mappa delle alleanze e complicità globali, spesso invisibili ai più, si presenta improvvisamente in chiaro.
Dai fatti sul terreno, dai servizi giornalistici che riprendono le tesi di Mosca, dai ministri italiani che parlano con il linguaggio dei bolivaristi latinoamericani, capisci qual è il mondo che si sta preparando.
Elena ha detto:
Non ho gli strumenti culturali per valutare se la nazionalizzazione delle imprese sia buona cosa (anche se la storia italiana passata e recente non lascia buoni ricordi). Mi sembra però che la prima parte dell’articolo sia quella da cui debba esser fatto discendere il resto. Dal punto di vista logico-formale, se le premesse giuridiche sono corrette (e non ho motivo di dubitarlo), la condotta di Morales è quanto di più anti-democratico e vicino a un colpo di stato possa esistere (e richiama tristi precedenti nostrani). Gli effetti positivi della sua azione di governo sono stati riconosciuti nell’articolo, ma ogni beneficio economico e sociale ottenuto da un governo che viola le sue stesse regole democratiche non può che preludere al disastro.
Luca Lovisolo ha detto:
E’ vero, ed è ciò che non vogliono riconoscere molti predicatori. Anche se avessero ottenuto risultati strabilianti, un governo e un presidente che si collocano fuori dalla Costituzione perdono ogni legittimità. L’aver «fatto anche cose buone,» come talvolta si favoleggia a proposito delle dittature fascista e nazista, non compensa né la loro mancanza di legittimazione né gli atti di cui si sono rese responsabili.
Marco ha detto:
L’articolo è fuorviante per lo meno nei confronti dei risultati economici conseguiti dalla Bolivia durante il governo Morales; in particolare, non mi pare appropriato denigrare aprioristicamente la nazionalizzazione delle risorse naturali di un paese, quando questa, nel caso specifico della Bolivia, ha portato ad una moltiplicazione dei profitti per la nazione (fonte: CEPR, Bolivia’s economics transformation: macroeconomics policies, institutional changes and results, 2019); sicuramente il paese andino rimane essenzialmente povero ma non è difficile notare come Morales abbia contribuito a migliorarne la situazione, dato che nei primi anni duemila l’economia, in termini di pil per abitante, cresceva a malapena e, dopo l’elezione del presidente indigeno, il dato ha ricominciato a crescere a ritmi sostenuti(in termini reali, dato che l’inflazione è pressochè nulla); nel frattempo la disoccupazione è calata dal 5,5% al 3,5% e l’indice di Gini è passato da 0,6 a 0,4, così ora il paese si trova al di là della mezzeria che sancisce una sostanziale distribuzione iniqua della ricchezza (fonte: World Bank), e mi sembra dunque inesatto additare alle ultime politiche le disuguaglianze che affliggono la popolazione boliviana.
Non mi sembra pertanto che la politica di interventismo statale di Morales sia così fallimentare e che anzi, la nazionalizzazione dei settori strategici abbia avuto una valenza positiva per l’economia (e quindi per il popolo) boliviana; vedremo i futuri governi quali nuove ferree regole sapranno dare alle multinazionali, dalle quali è per altro evidente come sia sponsorizzato il cambio al vertice. Nutro molti dubbi sul fatto che i Boliviani ne gioveranno.
Inoltre, mi sembra poco lucido puntare il dito contro l’autoritarismo di Morales e finire per legittimare una presa del potere che, se anche non fosse un colpo di stato da enciclopedia Treccani, ha comunque tutti i crismi di una manovra anti-democratica (a partire dal coinvolgimento dell’esercito, che ha tradito Morales e ora reprime i “lealisti” nel sangue).
Luca Lovisolo ha detto:
Pubblico questo commento unicamente perché dimostra due cose. La prima, il modo ormai diffuso di usare le funzioni di commento in Rete. Lei non ha letto il mio articolo, oppure lo ha letto e non lo ha capito: la risposta ai punti che Lei contesta, infatti, è già contenuta nel testo, inclusa la questione della presidenza provvisoria, che è spiegata con argomenti di diritto oggettivo. La seconda, è il potere della propaganda dei media. Nonostante dalle Sue argomentazioni emerga che Lei non dispone degli strumenti dialettici per intervenire in risposta all’articolo, si espone ugualmente in pubblico, accozzando senza alcun filtro dati e considerazioni che circolano sui media e che combina in base a una Sua personale interpretazione, guidata dalla forse unica bussola di cui dispone, l’ideologia. Devo riconoscerle una buona dose di coraggio.