Putin rieletto al quinto mandato: cosa significa

Putin rieletto presidente per sei anni: cosa significa per noi e per i russi
Putin rieletto presidente: cosa significa? | Mosca, nuvole su San Basilio | © Ivan Šilov

Putin rieletto, cosa significa: l’analisi e la retrospettiva della sua vicenda al Cremlino. La fine della Russia di Eltsin tra disastro economico e nostalgia per l’Unione sovietica. Lo snodo della successione tra Eltsin e Putin. La Russia di oggi: la morte di Aleksej Naval’nyj e le proteste nelle regioni, circostritte ma tenaci. La glorificazione del passato e la retorica di un regime che non guarda al futuro.


Le elezioni presidenziali in Russia fanno rumore, ma non fanno notizia. Anche il rumore, in verità, si è fatto abbastanza sordo. Ero a Mosca, sei anni fa, per una coincidenza di calendario proprio nelle settimane precedenti l’elezione presidenziale del 2018. Furono i russi con cui parlavo a ricordarmi che l’appuntamento elettorale era imminente, altrimenti non lo si sarebbe quasi notato. I manifesti elettorali non avevano nulla di elettorale: la conferma di Vladimir Putin era scontata. Mutatis mutandis, i manifesti non si distinguevano dalle immagini di propaganda che tappezzavano le città dell’Est Europa fino al 1989, chiunque abbia viaggiato in quei Paesi prima della caduta del comunismo le ricorda benissimo.

Sono passati sei anni, dall’ultima elezione presidenziale. Sono pochi, ma nel 2018 vivevamo ancora in un altro mondo. Le elezioni di quest’anno, in tempo di guerra, hanno fatto più rumore di allora, ma la noia di assistere a un rito dal finale già scritto è rimasta. Eppure, l’inizio del quinto mandato di Vladimir Putin rieletto alla presidenza significa pur qualcosa. Ci dà l’occasione per sottolineare alcuni elementi di storia recente russa da non dimenticare, per capire meglio il presente, nei limiti di quanto è possibile qui.

In questa analisi rivediamo in >quale Russia Putin giunge al potere nel 1999; il ruolo del suo predecessore >Boris Eltsin nella sua ascesa al soglio presidenziale e come Eltsin giudicò la >virata impressa da Putin al Paese. Parliamo infine di alcuni movimenti di >protesta nelle regioni russe emersi negli ultimi anni e forse meno noti in Occidente, per chiudere con un pensiero sul >futuro della Russia, ora nelle mani di Putin per altri sei anni.

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IN QUALE RUSSIA ARRIVA AL POTERE VLADIMIR PUTIN

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Non sempre ricordiamo in quale Russia Vladimir Putin giunge ai vertici dello Stato, dopo una carriera come funzionario dei servizi segreti. Nella prima Russia postsovietica, uscito dai servizi, Putin si accoda in ruoli poco appariscenti a diverse amministrazioni pubbliche, tra cui quella del celebre sindaco di San Pietroburgo Anatolij Sobčak. Nel 1996 il quarantaquattrenne Putin arriva a un passo dalle stanze della presidenza, come dirigente dell’amministrazione di Boris Eltsin. L’anziano primo presidente della Russia moderna sta entrando nel suo secondo mandato. E’ compromesso nella salute e ha perso gran parte del credito pubblico che i russi gli avevano assicurato sin dagli ultimi anni dell’Unione sovietica.

Eltsin si ritira con qualche mese d’anticipo, lo annuncia il 31 dicembre 1999. La Russia è in tempesta. La privatizzazione dell’economia di Stato ereditata dall’Unione sovietica era cominciata male con Gorbačëv ed è proseguita peggio con Eltsin. Gli oligarchi hanno accumulato ricchezze inaudite ed esercitano un potere superiore a quello del governo. L’ultimo regalo agli affaristi lo fa proprio Eltsin. Lascia che le banche di proprietà degli oligarchi si approprino, a prezzi bagatellari, di industrie statali iscritte come pegni a garanzia di prestiti concessi allo Stato, da quest’ultimo mai rimborsati.

In politica estera cominciano a radicarsi le dottrine che produrranno le invasioni della Georgia (2008) e dell’Ucraina (2014, 2022). Durante il secondo mandato di Eltsin, a fine anni Novanta, prendono piede le dottrine politiche di Aleksandr Dugin, allora giovane politologo i cui testi cominciano a circolare con successo nelle accademie civili e militari. Sulla cooperazione con l’Occidente, prima tanto ambita, Mosca comincia a comportarsi in modo sempre meno chiaro.

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All’interno esplodono le tensioni etniche: i separatisti tentano di strappare a Mosca i territori a maggioranza musulmana del Caucaso settentrionale. Ci riescono in Cecenia, umiliando l’esercito russo e dichiarando un’effimera indipendenza.

Putin rieletto, cosa significa guardando al 1999

In tutta la Russia, la popolazione, abituata alla vita grigia ma sicura che l’Unione sovietica aveva garantito fino ai primi anni Ottanta, sverna tra povertà e rabbia. Comincia a diffondersi la nostalgia per la grandezza perduta: agli occhi di molti cittadini è questa la causa della loro miseria, non il fallimento del comunismo. Corruzione e crimine organizzato pervadono la società. In talune regioni, pensioni e stipendi tardano mesi e «le persone cominciano ad avere paura l’una dell’altra,» denuncia il celebre scrittore e drammaturgo Viktor Rozov, nel suo intervento per il quinto anniversario della Fondazione Gorbačëv, nel 1997.

Accade allora ciò che oggi sembra impossibile. Vladimir Putin, uomo dei servizi segreti, sale al potere presentandosi come salvatore della patria e riesce a convincere molti di esserlo davvero. Spodesta gli oligarchi vicini a Eltsin, si distingue per la determinazione con la quale lancia l’esercito alla riconquista della Cecenia e stabilizza il Dagestan.

La campagna elettorale da presidente ad interim

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Queste operazioni, più ancora dei suoi modesti successi in economia, elevano il poco vistoso funzionario dalla voce sottile e dal volto scavato Vladimir Vladimirovič Putin, nemmeno cinquantenne, alla notorietà globale. Da gennaio a dicembre 2000 Vladimir Putin è capo provvisorio dello Stato, ad interim per il ritiro anticipato di Eltsin. Questi tre mesi sono la sua campagna elettorale sul campo, senza comizi e spot elettorali, condotta direttamente dall’ufficio della presidenza.

E’ Eltsin ad aver voluto così, come ricorda in un documentario di quegli anni. Il filmato è realizzato con immagini originali girate a casa sua la sera del 26 marzo 2000, quella in cui Vladimir Putin viene eletto capo dello Stato. Eltsin e la sua famiglia festeggiano: lui stesso aveva indicato Putin come proprio successore.

Se ne pentirà, racconta Boris Nemcov, il celebre politico russo che si opporrà a Putin e sarà ucciso a due passi dal Cremlino nel 2015. Racconta Nemcov, in un’intervista al giornalista Dmitrij Gordon: «Andai a trovare Eltsin nel 2003, quattro anni prima che morisse. Era molto irritato che in Russia vi fossero censura e autoritarismo […] Era molto deluso, ne parlammo apertamente. Dopo quell’incontro, sua figlia Tat’jana non mi permise più di vederlo.» Nella realtà, dietro all’ascesa di Putin vi è la mano lunga e discreta dei servizi segreti (ne parlo più in dettaglio in >questo approfondimento per il Corriere del Ticino).

I conti tornano: Putin eletto presidente a marzo 2000

Le analisi degli eventi internazionali di Luca Lovisolo

Putin funziona: né a lui né ai servizi segreti, nemmeno agli oligarchi e al sistema che lo circonda, interessa che la Russia riprenda il cammino verso la democrazia e l’Occidente, che si era interrotto con le sbandate dell’ultimo Eltsin. Putin lavora per ricostruire le strutture della Russia sovietica e imperiale. Vuole dirigere la macchina del Cremlino contro l’Occidente e attaccare il concetto stesso di democrazia. Agli oligarchi di Eltsin ne sostituisce altri, fedeli al nuovo corso; lo stesso accade con politici e funzionari di ogni livello. Gli uomini del suo predecessore vengono arrestati e processati; altri fuggono all’estero, fiutato il cambio di vento, qualcuno morirà in circostanze misteriose. I conflitti etnici sembrano vinti. In realtà sono schiacciati dalla paura che Putin replichi altrove le distruzioni che ha portato in Cecenia e che oggi rivediamo in Ucraina.

«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» ha scritto Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo, riferendosi all’Italia. Avrebbe potuto scriverlo anche della Russia, i due Paesi si assomigliano molto, da molte prospettive. La Russia di oggi è cambiata a fondo, dall’arrivo al potere di Vladimir Putin, ma è rimasta com’era. Quella che Putin riporta alla luce è la Russia zarista. Lo conferma lui stesso nel discorso con cui il 24 febbraio 2022 muove l’esercito all’attacco dell’Ucraina. Sconfessa persino Lenin, autore del federalismo sovietico, punto d’inizio, secondo Putin, dello smembramento dell’impero degli zar. L’obiettivo della Russia di Putin è assumere un deciso controllo su tutto ciò che accade nell’Europa «da Vladivostok a Lisbona.» Dove non può arrivare con l’esercito, il Cremlino agisce con una guerra ibrida sempre più invasiva e purtroppo vincente, fatta di infiltrazioni nei media e nella politica occidentali, fin nelle nostre case.

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PRESENTE E FUTURO: PUTIN RIELETTO, COSA SIGNIFICA

La recente morte in carcere del più noto oppositore russo, Aleksej Naval’nyj, ha fatto pensare a molti che il regime di Putin sia ormai debole. E’ una tesi consolatoria poco utile. Se il regime fosse debole, non sarebbe riuscito a zittire Naval’nyj, Prigožin, Nemcov o Anna Politkovskaja; anzi, forse sarebbe già caduto. Se un potere compie questi atti è perché sa di avere presa sufficiente per reprimere la reazione popolare, che esiste, in Russia, benché limitata alle parti di società attratte da modelli occidentali.

L’evento che più di ogni altro indebolisce Putin, in venticinque anni di comando, è il fallito golpe di fine giugno 2023 (>qui e >qui). Lì si vede Putin vacillare davvero, come chi si trova d’improvviso al buio in una stanza sconosciuta. Due uomini cruciali della sua rete tradiscono: l’uno è Evgenij Prigožin, con il suo impero comprendente la milizia Wagner, costruito grazie al favore dello stesso Putin; l’altro è il generale Sergej Surovikin, già comandante generale delle operazioni in Ucraina. Il suo cedimento è sintomo di una fedeltà vacillante in settori dell’esercito.

Bastano un paio di mesi, e nella stanza di Putin la luce si riaccende. Prigožin muore in un «incidente» aereo e il generale Surovikin viene ricollocato in una posizione innocua, accettare o morire; altre teste rotolano, mentre al posto della Wagner subentrano milizie sottoposte al Ministero della difesa. La partita di Putin ricomincia.

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Putin rieletto: cosa significa la protesta nelle regioni

La fine dell'Unione sovietica
Il racconto in video della fine dell’URSS – di Luca Lovisolo

Eppure, l’attualità russa è meno piatta di quanto sembra. Dal 2020 una serie di proteste scuote la città di Khabarovsk, a sostegno di Sergej Furgal, governatore locale. Furgal vince le elezioni regionali battendo il candidato gradito a Putin. Diventa subito bersaglio di azioni giudiziarie le cui motivazioni non convincono. La protesta perdura mesi e si organizza nel movimento Siamo tutti Furgal, ma il governatore viene destituito per decreto e poi condannato. Il caso occupa ancora oggi la cronaca russa: a febbraio 2024 il movimento Siamo tutti Furgal viene censurato dai giudici come organizzazione estremista.

Altro esempio sono le proteste in Baschiria, una repubblica a sud-est, ai confini con il Kazakhstan. A gennaio di quest’anno migliaia di persone manifestano. Sfidano la polizia e le temperature glaciali, contro l’apertura di un procedimento penale ai danni di un ecologista che protesta da mesi contro alcune attività che suscitano preoccupazioni ambientali, svolte dallo Stato russo nella regione.

Il caso ricorda la protesta suicida di Al’bert Razin, nell’Udmurtia, poco lontano dalla Baschiria. Nel 2019 Razin si suicida, dandosi fuoco per protestare contro la politica linguistica del Cremlino, che penalizza la lingua locale, l’udmurto, come altre lingue regionali. Si tratta di proteste circoscritte, non sempre riportate dai media occidentali, ma tenaci. Rivelano un disagio strisciante su temi specifici e ricorrenti: le relazioni con le etnie non russe, le difficoltà economiche, una crescente insofferenza verso le prevaricazioni del potere.

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La cronaca recente: cosa significa per Putin rieletto

Tra gli eventi più recenti si registrano ancora i moti scoppiati nel Dagestan dopo l’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023. Inauditi per gravità e proprio nel Caucaso musulmano, dove Putin si era imposto come uomo forte alla sua ascesa alla presidenza. Negli ultimi mesi si è rafforzato un movimento di mogli di soldati russi in guerra, che promuove una coraggiosa protesta a viso aperto. Anche per effetto delle sanzioni occidentali, l’inflazione corrode gli stipendi in tutta la Russia.

Infine, due ignoti candidati alle presidenziali, Ekaterina Duncova e Boris Nadeždin, hanno suscitato un consenso popolare inaspettato, prima di essere esclusi dalle elezioni con mezzi amministrativi. Il caso Nadeždin attrae particolare attenzione. Analisti politici russi indipendenti, i pochi rimasti, ipotizzano che la candidatura di Nadeždin dovesse fungere come quella di Ksenija Sobčak nel 2018: una figura fuori dagli schemi, d’opposizione apparente, senza prospettive di successo, ma utile a Putin per simulare un pluralismo elettorale. Nadeždin, invece, non privo di intelligenza politica, si è mosso di testa propria e ha mobilitato milioni di persone a suo favore. La sua candidatura è stata subito cancellata dalla Commissione elettorale. La sua storia è un altro indice che qualcosa si muove, sotto il gelo russo.

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Putin rieletto presidente: cosa significa per la Russia e per noi
Russia, stabilimento automobilistico GAZ, Nižnij Novgorod | © Pavel Neznanov

Il risultato delle elezioni, come interpretarlo

Oggi serve a poco analizzare la percentuale (87% e più) con la quale Vladimir Putin è stato rieletto presidente della Russia. Il Cremlino ha possibilità illimitate di manipolare i risultati e i dati di affluenza. Anche questa volta, dai seggi sono arrivate immagini di risme di schede gettate nelle urne da individui sconosciuti, di comportamenti inadeguati delle forze dell’ordine e altre irregolarità. Si tratta di immagini trapelate dalle telecamere di sicurezza o riprese da cittadini coraggiosi. Non è possibile dire molto, in assenza di osservatori ufficiali indipendenti.

Vi sono stati casi di proteste: bottiglie incendiarie contro i seggi, schede annullate o rovinate, urne cosparse di zelënka, non a caso lo stesso liquido verde usato anni fa per un attentato contro Aleksej Naval’nyj. Restano episodi marginali. Un buon successo ha riscosso invece la protesta lanciata dalla vedova di Naval’nyj. La signora Julija ha invitato tutti coloro che dissentono dal regime a presentarsi insieme ai seggi a mezzogiorno di domenica, per causare code e mostrare la forza dell’opposizione. Ciò è accaduto, sia in Russia sia nei Paesi dove i russi potevano votare. Non è possibile però quantificare l’entità reale del movimento.

Si può discutere sui numeri, ma non vi sono dubbi che Putin e il suo sistema godano in Russia di un consenso sostanziale, sufficiente a mantenere il regime al potere senza eccessivi timori di rivolta popolare. Alle opposizioni non resta che compiere azioni dimostrative, nobili, coraggiose, ma di scarso effetto concreto. Come spiego meglio nel mio libro «Il progetto della Russia su di noi» (>qui) è errato concentrare l’attenzione su Putin. La strategia attuata dal presidente russo è pensata per continuare anche senza di lui ed è una spada di Damocle sulla sicurezza di tutti noi. In Occidente, ancora pochi hanno percepito l’urgenza e la gravità di questa minaccia.

Quale futuro per la Russia?

Resta un’ultima domanda: quale futuro attende la Russia? Vladimir Putin sarà presidente della Russia per altri sei anni. La Costituzione russa stabilisce che il capo dello Stato non può svolgere più di due mandati, Putin sta entrando nel quinto. Vero che la presidenza di Dmitrij Medvedev (2008-2012) ha interrotto la successione, ma Putin ha continuato a tirare le fila dello Stato come primo ministro e ha portato da quattro a sei anni la durata del mandato presidenziale. Vero che nel 2000 è stata approvata una riforma costituzionale e che si è ritenuto, per l’occasione, di far ripartire da zero il conteggio dei mandati del capo dello Stato. E’ difficile nascondere, però, che questi escamotage sembrano studiati per garantire potere senza termini a un presidente sempre più simile a un monarca.

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Il Cremlino ha liquidato il colpo di Stato di Prigožin e non si lascia scalfire dalle proteste che lo contrastano qua e là. Le reprime senza difficoltà con arresti, intimidazioni, magheggi amministrativi e giudiziari. Questi movimenti, però, sono spie rosse che si accendono sempre più spesso, sul quadro comandi di Vladimir Putin, come il gran numero di persone che ha rischiato l’arresto, pur di partecipare alle esequie di Aleksej Naval’nyj e deporre un fiore in sua memoria. L’instabilità e il dissenso crescono con il perdurare della guerra in Ucraina. Sembra che qualcosa stia lentamente cambiando, nell’atteggiamento della popolazione verso il regime, ma è presto per trarre conclusioni.

La guerra: cosa significa per Putin rieletto

Proprio la guerra in Ucraina, anche se non la si può nominare, è il chiodo dal quale pende ogni scelta politica, nella Russia di oggi. Sull’andamento del conflitto torneremo con una prossima analisi. Qui basti dire che a oggi, nonostante l’indebolimento dell’Ucraina, né Putin può contare sulla vittoria né gli ucraini sono condannati alla sconfitta.

Quale futuro per la Russia, allora? E’ la domanda dalla risposta più breve: il futuro non c’è. E’ assente dai discorsi del presidente, dalla narrazione bellica che pervade il Paese, dalle lezioni che i soldati con esperienza di combattimento in Ucraina tengono nelle scuole russe, per «educare» i ragazzini al sacrificio. La Russia di Putin è rivolta a un passato che comincia dagli zar e finisce con la Seconda guerra mondiale.

Domina lo spauracchio del nemico «fascista» descritto con una retorica anni Quaranta, identificato con tutto l’Occidente. Il futuro dovremo gestirlo noi, quando i ragazzini cresciuti in quelle scuole saranno i dirigenti russi con i quali dovremo confrontarci, se ancora nulla cambierà.

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Luca Lovisolo

Lavoro come ricercatore indipendente in diritto e relazioni internazionali. Il mio corso «Capire l'attualità internazionale» accompagna chi desidera comprendere meglio i fatti del mondo. Con il corso «Il diritto per tradurre» comunico le competenze giuridiche necessarie per tradurre testi legali da o verso la lingua italiana.

Commenti

  1. Fausto ha detto:

    Salve Luca,

    Ho letto la ricostruzione del fallito colpo di stato del 1991 sul >Corriere del Ticino. Se la fonte è il diario di Eltsin, non può che essere elogiativo del suo autore. Sarò superficiale, cospirazionista, quello che vuole, ma il golpe mi era sembrato e mi sembra ancora una sceneggiata da cui ci ha guadagnato Eltsin, che sul carro armato non avrebbe potuto salire se chi lo guidava fosse stato contro di lui.

    Subito dopo i fatti circolò un breve cartone animato, che si diceva realizzato in una sola notte (in Italia lo trasmise TMC) nel quale Eltsin scaricava nel gabinetto le caricature dei golpisti, con tanto di bandiera russa sventolando nel finale. Ecco, anche per questo ho sempre avuto sospetti. Eltsin, da sconosciuto (in Occidente) presidente della Rsfsr ha spodestato Gorbaciov (compiendo di fatto il golpe) e sciogliendo arbitrariamente l’URSS d’accordo con i capi delle altre repubbliche.

    Il nesso tra il golpe e lo scioglimento ancora non lo vedo.
    Può dissipare i miei dubbi?

    • Luca Lovisolo ha detto:

      Buongiorno Fausto,

      La fonte dell’articolo non sono solo le memorie di Eltsin (meglio non fidarsi di una fonte sola, specie se autobiografica). Ne ha parlato molto dettagliatamente anche Gorbačëv nelle sue memorie e poi ci sono i racconti di molti altri protagonisti. La ricerca sul golpe ha prodotto nel frattempo una letteratura praticamente infinita. Gli eventi sono chiari e il racconto che ne faccio nell’articolo si basa su tutto questo.

      Rispetto a questi fatti è facile lasciarsi affascinare dalle dietrologie. Succede anche oggi, con il recente attentato di Mosca o con il colpo di Stato di giugno. I rapporti fra Eltsin e Gorbačëv non furono mai buoni, ma durante il golpe si sostennero a vicenda e furono leali verso lo Stato dell’Unione sovietica. Ambedue avrebbero potuto accettare un compromesso con i golpisti e fuggire all’estero, lasciando l’URSS al suo destino. Non cedettero, misero a rischio la loro vita, quella delle loro famiglie, dei collaboratori e delle guardie del corpo. Questi sono fatti che non si possono trascurare. Se si guarda alla condotta di altri politici sovietici, in quelle ore, bisogna riconoscere a Gorbačëv e a Eltsin di aver tenuto testa a una situazione che poteva facilmente degenerare in qualcosa di ancor peggio. Su Eltsin, in particolare, si è sviluppata una letteratura denigratoria che non rende merito alla sua figura. Da presidente, soprattutto nel secondo mandato, mostrò molti limiti e debolezze, ma la sua vicenda non si può ridurre a una caricatura, come molta storiografia ha fatto.

      Per quanto si sia detto e insinuato, nulla attesta che Eltsin avesse accordi con i golpisti. Non si può affermare che abbia organizzato il golpe per eliminare Gorbačëv, seppur si detestassero. Certo, dal golpe la Russia di Eltsin e Eltsin stesso uscirono vincenti, ma da questo a dire che Eltsin abbia voluto il golpe per scalzare Gorbačëv e liquidare l’Unione sovietica ce ne corre. Quanto al nesso tra il golpe e lo scioglimento dell’URSS: Gorbačëv aveva perso gran parte del sostegno popolare, particolarmente a causa del disastro economico degli ultimi anni. Il malumore verso l’URSS serpeggiava da tempo in tutte le Repubbliche sovietiche. Quando Gorbačëv tornò dalla Crimea dopo il colpo di Stato, di fatto non aveva più alcun credito, il golpe aveva completamente distrutto la già debole reputazione dell’Unione presso la popolazione e i governi delle repubbliche. A Mosca non si capiva più esattamente nemmeno chi avrebbe comandato le forze armate sovietiche, in caso di necessità. Praticamente tutte le repubbliche si dichiararono in uscita dall’Unione, dopo il golpe, una dopo l’altra.

      Quando Eltsin, Kravčuk e Šuškevič decisero di costituire la Comunità degli Stati indipendenti, l’otto dicembre 1991, lo fecero perché a) il progetto di riforma promosso da Gorbačëv era fallito, tutte le Repubbliche erano in fuga; b) il potere dell’Unione non esisteva di fatto più. Si trattava di inventare qualcosa che tenesse unite le ex repubbliche sovietiche in nome dei legami economici e politici esistiti dal 1922 e chiarire competenze importanti che in quel momento erano pericolosamente incerte. Certo, la fondazione della CSI permise a Eltsin di togliersi dai piedi Gorbačëv, ma questa fu una conseguenza, non una motivazione. Si possono aprire mille scenari… dietrologici, se si vuole, ma i fatti furono questi. Sono logici e coerenti, se si tiene conto della situazione di quei momenti, e ampiamente documentati. Spero di aver chiarito i Suoi dubbi.

      Cordiali saluti
      LUca

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Luca Lovisolo

Lavoro come ricercatore indipendente in diritto e relazioni internazionali. Con le mie analisi e i miei corsi accompagno a comprendere l'attualità globale chi vive e lavora in contesti internazionali.

Tengo corsi di traduzione giuridica rivolti a chi traduce, da o verso la lingua italiana, i testi legali utilizzati nelle relazioni internazionali fra persone, imprese e organi di giustizia.

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