Con luci e ombre, Iosif Kobzon era un pezzo di storia del Novecento. Ha brillato per più di mezzo secolo tra i miti della canzone russa. Membro del Partito comunista sovietico, fu il cantante preferito ai ricevimenti del Cremlino. Cantò a Černobyl’ poco dopo la catastrofe nucleare. Parlamentare, mantenne il suo corso di fedelissimo al potere, con legami non sempre trasparenti.
Perché dovrebbe interessarci Iosif Davydovič Kobzon, deceduto ieri a Mosca all’età di ottant’anni, cantante sovietico di origine ebraica e uomo politico russo nato in Ucraina orientale? Perché, con luci e ombre, era un pezzo di storia del Novecento, perciò anche nostra. Era un cantante tradizionale, di un genere che in Occidente è ormai scomparso, sotto i colpi della musica pop: il genere in voga fino ai primi anni Sessanta, il cui ultimo esponente, in area italiana, fu Claudio Villa. In Unione sovietica e nell’Europa dell’est la musica angloamericana degli anni ’60 e ’70 non si diffuse in massa, perché severamente censurata dai regimi comunisti. In URSS, pochi dischi dei nuovi idoli circolavano clandestinamente, riprodotti su fragili supporti di plastica flessibile che si nascondevano tra le pagine dei giornali; in Germania est, Erich Honecker in persona dedicò un esplicito dispregio alla musica rock, strumento di corruzione della società. Gruppi locali cercavano di imitare blandamente i nuovi ritmi occidentali, per accontentare la gioventù, ma stavano ben attenti a non superare i limiti.
Così, il genere lirico-melodico è sopravvissuto in Russia sino ai nostri giorni, anche se subisce l’aggressione sempre più dura dei modelli angloamericani. Resta una produzione di musica leggera talvolta di altissima qualità, nelle melodie e nei testi, scritti da poeti autentici. Oggi, tra i concorrenti delle versioni russe di X-Factor o The Voice, compaiono e fanno carriera molti giovani cantanti di stile melodico classico, come Sof’ja Opopčenko, Elena Maximova o Viktorija Čerentsova. Il loro livello vocale non è neppure paragonabile ai saltellanti e gracchianti urlatori occidentali.
In quel mare navigava Kobzon, sovrano di un firmamento in cui ha brillato per più di mezzo secolo insieme ad altri miti della canzone sovietica, come Alla Pugačëva o Aleksandr Gradskij. Gli inizi della sua carriera, nei primi anni Cinquanta, coincisero con il primo diffondersi della televisione in Unione sovietica, con gli apparecchi KVN-49 (ne aveva uno persino Boris Pasternak), una sorta di grossa radio con uno schermo piccolissimo: per vedere la TV in famiglia, i sovietici dovevano mettergli davanti una specie di grande lente d’ingrandimento installata su un cavalletto a parte; poi, qualche anno dopo, arrivò il più pratico modello Rekord. La TV portò l’immagine di Kobzon in tutti gli undici fusi orari dell’URSS.
Rifiutò di darsi uno pseudonimo che suonasse più russo, come gli aveva suggerito il compositore Arkadij Ostrovskij (che in realtà si chiamava Avraam, Abramo), per mascherare l’origine ed evitare il pregiudizio che emarginava gli ebrei nell’Unione sovietica di allora. Negli anni Ottanta, durante un concerto ufficiale nella Casa dei sindacati, cantò una canzone ebraica: la delegazione di un Paese arabo si alzò e lasciò la sala. L’episodio costò a Kobzon un anno di sospensione dal Partito, che significava l’esclusione dalla TV e dai maggiori concerti.
Qualche anno fa, poco prima di chiudere ufficialmente la sua carriera, Kobzon aveva duettato sul primo canale con Katja Rjabova, dodicenne, che si era classificata seconda al concorso dell’Eurovisione per bambini con la canzone «Il piccolo principe:» «Ho cantato di un principe, ma ora vedo un re!», cantava la piccola Katja rivolta a Kobzon, che le rispondeva: «Non sono un re, sono solo un tuo collega / Adesso in Russia abbiamo Katja, orgoglio del Paese / La tua strada non sarà facile, ma già brilla la tua stella.» Una specie di passaggio di consegne, ma la profezia di Kobzon non si è avverata. La giovane Katja ha lasciato le melodie tradizionali russe per allinearsi, senza brillare, allo stile angloamericano, poi si è eclissata dalle scene, oggi moglie e madre ventenne.
Nei regimi autoritari, gli artisti sono sempre di due tipi: i contestatori e i fedelissimi. I primi devono essere molto coraggiosi e possono fare brutte sorprese a chi comanda. Nel 1969, alla festa di compleanno di sua figlia Galina, l’allora leader sovietico Leonid I. Brežnev incontrò il cantautore «contestatore» Vladimir Vysotskij, di cui sua figlia era un’estimatrice. Il giornalista tedesco Gerd Ruge, che era presente, racconta che Brežnev in quella circostanza ebbe una conversazione privata con Vysotskij e questi, che non era tipo da mandarle a dire, gli disse senza mezzi termini che in Unione sovietica non funzionava niente, che non si poteva parlare liberamente, che era impossibile andare avanti così. Brežnev ne uscì offeso e con la festa rovinata. Con Kobzon, Brežnev non correva questi rischi. Membro del Partito comunista sovietico, fu il cantante preferito ai ricevimenti ufficiali del Cremlino e ai grandi concorsi canori nazionali. Non c’era festa se non c’era Kobzon, la voce sovietica che cantò per i politici della Guerra fredda, per il Komsomol e per i soldati dell’Afghanistan (nove volte).
Cantò a Černobyl’, poche settimane dopo la catastrofe nucleare, nei concerti organizzati per tenere alto il morale dei «liquidatori» che sgombravano le macerie radioattive. Orgoglioso di essere stato il primo ad accettare quell’invito, cantò per il primo turno di lavoratori. Poi vide che in sala erano arrivati gli operai del secondo turno, e ripeté il concerto, e così fece anche per il terzo turno. Cantò in totale quattro ore, assorbendo una fortissima dose di radiazioni, a cui i medici attribuiscono il tumore che dai primi anni Duemila lo ha colpito e, ieri, portato alla morte. Il suo atteggiamento verso il potere si può criticare, ma ci credeva davvero.
Nel 1989 fu eletto Deputato del popolo, alle prime elezioni semi-libere volute da Michail Gorbačëv, le stesse in cui furono eletti anche Anatolij Sobčak e il fisico dissidente Andrej Sacharov. Con l’arrivo di Putin, riconfermò il suo corso di fedelissimo, con l’attività politica e rapporti affaristici di dubbia trasparenza. Ucraino di nascita, nel 2014, all’esplodere del conflitto tra Russia e Ucraina, Kobzon diede il peggio di sé: approvò esplicitamente l’annessione della Crimea e le azioni nel Donbass da parte di Mosca. Divenne cittadino e console onorario della cosiddetta Repubblica di Donec’k, autoproclamata dai ribelli filorussi. In risposta, gli furono revocate le cittadinanze onorarie che aveva ricevuto da numerose città ucraine e gli fu vietato l’ingresso nel Paese.
Perse tutte le onorificenze dello Stato ucraino e la possibilità di recarsi in Occidente, perché assoggettato alle sanzioni internazionali contro la Russia. Con l’intervento personale di Putin poté però ottenere il visto per recarsi in Italia, nel 2015, per sottoporsi a cure oncologiche non possibili in Russia. Aveva concluso ufficialmente la sua carriera l’11 settembre 2012, con un concerto solista in un edifico pieno di storia: il Palazzo di Stato del Cremlino.
«Relazioni internazionali» significa anche molto altro che politica. La storia di Iosif Kobzon dimostra che la vita di un cantante, nel bene e nel male, può contenere un mondo intero. Un mondo che se ne va con lui, lasciandoci un futuro che non conosciamo.