Il violento terremoto che ha scosso l’Italia centrale ha suscitato reazioni connesse alla crisi dei migranti. Formulate con toni più attenuati, le argomentazioni suonano più o meno così: i migranti hanno ancora diritto di ricevere prestazioni sociali, quando uno Stato deve trovare casa per migliaia di propri cittadini rimasti improvvisamente senza un tetto?
Stando a quanto dicono i giornali, dopo il terremoto alcune decine di migranti si sono resi disponibili come soccorritori. E’ una buona opera, che tuttavia risponde a una lodevole condotta individuale e non ha nulla a che vedere con la domanda da cui siamo partiti. Questo esempio non può essere utilizzato come argomento per controbattere chi leva il dito ammonitore e pronuncia la sua sentenza: «Adesso aiutiamo i nostri, non i migranti!»
All’estremo opposto si legge non di rado che quando si tratta di diritti, non si dovrebbero fare differenze. Se esiste un diritto, dev’essere per tutti. Chi, nel godimento dei diritti, fa differenze, mette in pericolo l’equità, poiché un diritto è tale solo se vale indistintamente. Anche questo è un approccio errato, poiché proprio il diritto è la più fine delle arti della differenziazione. Se vi è un diritto, dev’esserci anche un gruppo di persone alle quali tale diritto è attribuito, che si distinguono da quelle che non ne possono beneficiare. E i diritti umani – cioè diritti dei quali godiamo solo in quanto nati Uomini, indipendentemente da qualunque altra riserva?
Anche i diritti umani presuppongono una differenziazione: il fatto che solo gli Uomini, ma non gli animali o i vegetali, possono rivendicarli. Anche i diritti fondamentali hanno bisogno di una delimitazione, per realizzarsi concretamente. Un diritto senza un soggetto che ne sia portatore può essere un necessario principio astratto, ma resta inapplicabile. Chi dice «diritto,» deve dire anche «per chi.»
Ora: i cittadini di uno Stato, rispetto ai migranti, hanno un diritto di prelazione sulle prestazioni sociali? In caso di catastrofe, cambia qualcosa? I senzatetto cittadini dello Stato, dopo un terremoto, devono prendere il posto dei migranti nelle strutture di accoglienza, e i migranti dove vanno? La risposta a queste domande richiede un doppio percorso, lessicale, da una parte, e giuridico, dall’altra.
Dal punto di vista lessicale sbagliamo, se continuiamo a parlare di «migranti.» Il concetto di «migrante» non significa nulla, per sé, fin quando non gli si aggiunge un aggettivo che dica qualcosa sul movente della migrazione. Ci sono migranti economici e rifugiati politici. I rifugiati politici si distinguono a loro volta in rifugiati per motivi soggettivi, secondo la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati (perseguitati per ragioni politiche, etniche e per una lista ben definita di altre cause) e persone che fuggono per motivi oggettivi, da Paesi riconosciuti in guerra. I rifugiati secondo la Convenzione di Ginevra devono dimostrare di essere perseguitati come individui e hanno diritto all’asilo secondo principi di diritto internazionale. Coloro che fuggono da Paesi in guerra, invece, non devono provare di essere personalmente in pericolo e ricevono una protezione provvisoria secondo le leggi interne di ciascuno Stato.
I migranti economici possono essere ammessi se l’economia del Paese ospitante è in grado di assorbirli. Questa capacità di assorbimento si manifesta in quasi tutti gli Stati sotto forma di quote annuali d’immigrazione. Ogni migrante economico che voglia entrare in un Paese dopo l’esaurimento delle quote d’immigrazione è un soprannumerario e sovraccarica lo Stato ospitante in merito, tra l’altro, ai tassi di occupazione, al dumping salariale e alla sicurezza sociale. Solo una sbiadita retorica può mettere i migranti economici sullo stesso piano dei profughi di guerre e persecuzioni. Se vogliamo sapere se i cittadini di un Paese hanno diritto di prelazione sulle prestazioni sociali, non possiamo parlare genericamente di «migranti.» Rispetto a quali stranieri dovrebbe valere, tale eventuale prelazione?
Eccoci così agli aspetti di diritto pubblico. In Europa, tutti viviamo in Stati sociali. «Stato sociale» significa che lo Stato eroga certe prestazioni allo scopo di sanare il più possibile le disparità sociali fra cittadini. A dipendenza del Paese, queste prestazioni comprendono la scuola, la sanità, i sussidi di disoccupazione, la protezione civile e molto altro. Lo Stato finanzia queste prestazioni prelevando imposte proporzionali al reddito dei contribuenti. Nei Paesi in cui la socialità è gestita dai privati, lo Stato regola comunque per legge obblighi e prestazioni in un quadro di diritto pubblico. Dall’inizio del ventesimo secolo, le prestazioni sociali costituiscono una parte importante del contratto sociale (nel senso del Contrat social di J.J. Rousseau) che tiene unita la nostra società moderna.
Lo Stato sociale si dispiega di necessità all’interno di chiare frontiere geografiche e per una determinata popolazione. Uno Stato sociale funzionante presuppone infatti un controllabile rapporto di dare-avere tra i partecipanti, su un territorio delimitato. Chi vuole lo Stato sociale deve anche riconoscere che esiste un territorio interno, su cui vivono cittadini che beneficiano di determinate condizioni, e un territorio estero, dal quale provengono stranieri che non sono parte del nostro contratto sociale e pertanto, di principio, non hanno diritto di reclamare le prestazioni che ne derivano. Se cadono le frontiere e le differenze tra cittadini e stranieri, cade anche lo Stato sociale con le sue prestazioni. In questo senso, la libertà di circolazione delle persone fra Stati, come avviene ad esempio nel Mercato comune europeo, è possibile solo se tra i Paesi interessati esistono condizioni paragonabili e se vi sono accordi che mirano a costituire uno spazio economico e regolamentare comune.
Vi sono tuttavia persone che sono fuori dal contratto sociale, eppure possono venir ammesse al beneficio delle prestazioni che ne derivano: i cittadini, attraverso i loro rappresentanti in Parlamento, approvano una legge in base alla quale alcune categorie di stranieri – dunque non-membri della comunità che alimenta tali prestazioni – possono entrare nel territorio dello Stato e utilizzare scuole, ospedali e altri servizi. Questi sono i rifugiati politici e un numero ben definito di migranti economici: nessun altro, però. Il presupposto giuridico che rende possibile ciò è dato dalle convenzioni internazionali e dalle leggi nazionali sugli stranieri e sull’asilo. Lo Stato, infatti, agisce attraverso leggi, non per misericordia, anche quando opera in spirito solidaristico.
Da queste considerazioni discende la risposta alla domanda di partenza: i cittadini interni di uno Stato hanno prelazione sulle prestazioni sociali, particolarmente in caso di catastrofe?
Se uno straniero si trova legalmente sul territorio di uno Stato, ogni discriminazione deve essere respinta con decisione. Una legge democraticamente approvata garantisce a un rifugiato o a un migrante economico regolare le prestazioni sociali del nostro Stato. Quest’ultimo deve erogare delle prestazioni di socialità e protezione adeguate, sia per i propri cittadini sia per gli stranieri autorizzati a risiedervi. Ciò vale a maggior ragione in caso di catastrofe.
Gli stranieri che si trattengono illegalmente in uno Stato, ad esempio i migranti economici al di fuori delle quote legali di immigrazione, non possono in alcun caso avanzare rivendicazioni e in alcuni Paesi sono perseguiti penalmente. Ciò vale indipendentemente dal verificarsi di eventi particolarmente tragici come catastrofi naturali o profonde crisi economiche.
Le contraddizioni della situazione degli immigrati irregolari in Italia sono particolarmente vistose. La grande maggioranza di quelli che sono sbarcati nel Paese via mare negli ultimi anni non è stata neppure registrata, per mancanza di efficienza e di volontà politica. L’esperienza dice che solo circa un terzo di questi adempie i requisiti per il riconoscimento del diritto all’asilo. Gli altri due terzi impegnano le strutture di accoglienza e generano costi senza avere concrete prospettive di ottenere un permesso di soggiorno come migranti economici. Dovrebbero essere rimpatriati, ma le autorità italiane non provvedono. Interessi dubbiosi e la criminalità organizzata vedono nella migrazione una buona opportunità d’affari. A differenza di altri Paesi, la permanenza illegale sul territorio, in Italia, non è penalmente perseguibile. Lo Stato italiano sembra aver rinunciato al controllo degli ingressi, per sé e per gli Stati dell’area Schengen. La protezione delle frontiere Schengen avviene oggi, di fatto, al Brennero e alle frontiere meridionali di Svizzera e Francia.
Che lo status incerto di così tanti immigrati non controllati causi crescenti attenzioni da parte della popolazione, particolarmente in caso di improvviso fabbisogno di forti prestazioni sociali, e possa suscitare reazioni politicamente scorrette, può suonare inopportuno, ma non deve meravigliare.
Per concludere: in merito all’immigrazione è necessario usare un linguaggio più preciso. Anche negli articoli dei media, la situazione giuridica di rifugiati e migranti economici andrebbe rappresentata con maggiore esattezza. Lo Stato deve erogare prestazioni sociali e di protezione adeguate e di pari valore per i propri cittadini e per gli immigrati legali (che siano rifugiati o migranti economici regolari), e ciò anche nei casi in cui è toccato da catastrofi. Gli immigrati illegali devono essere rimpatriati: devono collaborare allo sviluppo dei loro Paesi e noi possiamo sostenere quei Paesi nel quadro della cooperazione internazionale, combattendo così insieme le cause della migrazione economica.
Un efficiente controllo delle frontiere e della popolazione fa parte delle funzioni vitali di uno Stato moderno. Nell’area Schengen questo compito è delegato ai Paesi con frontiere esterne: la delega può certamente essere fatta funzionare meglio, ma il principio non cambia. Se uno Stato o un’unione di Stati rinuncia a questa funzione, nascono malumori e iniquità.
L’insistere su un linguaggio inadeguato e il permanere di un quadro giuridico non chiaro non sono buoni presupposti nemmeno per i privati e le associazioni umanitarie, le cui attività di aiuto, sia nella gestione dei flussi migratori sia nei casi di catastrofe naturale, non si apprezzerà mai abbastanza.