Secondo un’applicazione formale del diritto del mare, la Sea Watch avrebbe dovuto attraccare. Tuttavia, è chiaro ormai anche per i più disattenti che le persone soccorse dinanzi alle coste libiche non sono vittime di naufragi o altri casi fortuiti. Di fronte al mutato quadro delle migrazioni, le norme internazionali dovrebbero essere ripensate. La Libia non è un Paese sicuro, ma citare la Libia è errato nel merito e nel metodo.
I cittadini stranieri presenti sulla nave Sea Watch sono sbarcati in Sicilia, dopo una lunga attesa al largo. Saranno distribuiti su più Stati dell’Unione europea. Sembra ogni giorno più chiaro che gli italiani hanno scelto di farsi governare da una congrega di sfaccendati, miracolati dalla politica e impreparati alle funzioni che si sono attribuiti, ma questa brigata circense, seppur con i metodi che possono essere propri di una tale varia umanità, è riuscita a ottenere un risultato: far capire almeno a qualcuno, se non a tutti, che non si accede al territorio di uno Stato a proprio arbitrio, e che, se qualcuno vi arriva, qualificandosi più o meno autenticamente come bisognoso di protezione, il flusso di sbarcandi dev’essere ripartito fra tutti gli Stati che condividono la frontiera comune europea.
È vero, vi sono sbarchi che sfuggono all’attenzione pubblica e non si sa come vengono gestiti. Almeno in qualche caso, però, Roma oggi riesce a far capire che le frontiere esistono. Le frontiere, va ricordato, sono un dato di diritto pubblico e internazionale, non un fatto politico di partito. Si è arrivati al punto, in questi giorni, che il comandante della Sea Watch si è dichiarato scontento, di fronte ai giornalisti della TV italiana, di essere approdato a Catania, perché a suo dire la Procura cittadina è meno compiacente; avrebbe preferito, parole sue, sbarcare a Siracusa. E poi?
Secondo un’applicazione formale del diritto del mare, è fuor di dubbio che la Sea Watch avrebbe dovuto attraccare, anche perché carica di persone soccorse in mare, e non vedendosi altri motivi per negarle l’approdo (tralasciamo qui, per esigenze di sintesi, il ruolo della Tunisia e di Malta). Le convenzioni che stabiliscono questi obblighi internazionali, però, sono state promulgate per ovviare alle conseguenze di naufragi o altri casi dovuti a forza maggiore, perciò sporadici e fortuiti. È chiaro ormai anche ai più disattenti che non è questo il caso, quando ci si riferisce a persone soccorse dinanzi alle coste libiche. Si ha a che fare, piuttosto, con persone che salgono consapevolmente su natanti precari, destinati al disastro, spinte a farlo da passatori criminali, ai quali gli stessi migranti pagano ingenti somme di denaro per procurarsi il trasporto. Un naufragio o un incidente sono un’altra cosa. E’ chiaro che le persone cadute in mare devono essere tirate fuori in ogni caso: il problema sta prima e dopo. Evitare che ci arrivino, a mare, poi gestirle dopo il prelievo.
La Libia non è un Paese sicuro, e anche questo è un dato incontestabile. Citare la Libia, però, è falso nel merito e nel metodo. Le persone che si mettono in mare sulle coste libiche, nell’ingenua prospettiva di entrare in Europa in clandestinità o chiedendo in malafede protezione, non provengono dalla Libia e in Libia non sarebbero neppure dovute arrivare. Si possono fare mille cose concrete e rapidamente efficaci per dissuadere queste persone dall’intraprendere tali viaggi sconsiderati e per dar loro modo di trovare un futuro nei loro Paesi. Nessuno le fa (o pochi). Anche chi ha coniato l’urlo da stadio «aiutiamoli a casa loro» non sta facendo nulla, a casa loro. Il problema va risolto alla radice, ma la radice è scomoda e lontana.
Lo status dei poco meno di cinquanta cittadini stranieri sbarcati in Sicilia dalla Sea Watch si dovrà chiarire. Se si guarda ai dati statistici e alle esperienze, vi è da presumere che ben pochi avranno reale titolo alla protezione internazionale. Risuona ancora nelle orecchie ciò che è accaduto quest’estate, con il caso, analogo per alcuni aspetti, della nave Diciotti. Benché gli sbarcati, visto il loro Paese di provenienza, avessero altissima probabilità di ottenere la regolarizzazione come aventi diritto all’asilo politico, nei giorni successivi allo sbarco hanno fatto perdere quasi tutti le loro tracce, scegliendo consapevolmente la clandestinità. E’ presumibile che abbiamo preferito così per sottrarsi a ogni controllo, svolgere attività in nero, riunirsi a parenti o circoli di connazionali probabilmente altrettanto ignoti alle autorità europee.
Tolta una minoranza di persone realmente bisognose, quali sono allora le reali intenzioni di coloro che arrivano in Europa con tutte le Sea Watch e le Diciotti della terra? Che mondo hanno in testa, i comandanti che pretendono di scegliere a loro gradimento la Procura da cui essere eventualmente interrogati?
Le convenzioni internazionali sul soccorso in mare e sulla protezione politica e umanitaria non sono state fatte per aggirarle e per regolare i flussi migratori illeciti. Ognuno è tenuto ad agire secondo la buona fede, nell’esercizio dei propri diritti come nell’adempimento dei propri obblighi. Chi fa manifesto abuso della legge ne perde i benefici. E’ legge anche questa. È possibile che tra coloro che si mettono incautamente in mare vi siano persone che hanno realmente bisogno e diritto di protezione: sono le vittime principali di questi abusi.
Le norme internazionali, di fronte al mutato quadro delle migrazioni, abbisognano di un ripensamento, nell’interesse stesso dei (veri) beneficiari. L’Italia sarebbe in una posizione di forza e privilegio, nel promuovere una tale riforma complessiva, per la sua posizione geografica e per il contatto diretto che ha con il fenomeno. Si può ragionevolmente escludere che la brigata circense di cui si diceva all’inizio possa intraprendere qualunque serio passo in questa direzione. Come al solito, Roma lascerà fare ad altri, per poi lamentarsi del risultato.
L’amministrazione italiana, intanto, ha riformato la protezione umanitaria nazionale: il provvedimento era necessario da tempo, poiché questo istituto si prestava a troppi e manifesti abusi. Nella sua approssimazione, però, il governo italiano non ha previsto regole di transizione per chi, dall’oggi al domani, cade in clandestinità e non può tornare al proprio Paese d’origine. Allo stesso modo, ha decretato la morte di strutture e metodi di accoglienza o integrazione che funzionavano, senza indicare alternative plausibili. Non si risolvono i problemi esistenti con provvedimenti cinici e punitivi, che rispecchiano il cinismo e bisogno di rivalsa di coloro che li promulgano, e nulla più.
Resta l’amara constatazione che per ottenere una pur modesta cooperazione di altri Stati nella distribuzione di coloro che approdano in Europa, quale che sia il loro status, a Roma si siano dovuti attendere dei ministri che sbraitano e battono pugni sui tavoli come ubriachi in osteria; che per ottenere qualche risultato si debbano tenere in mare per giorni decine e decine di persone. È quasi un decennio che il problema dell’aumento dei flussi migratori giace sulle scrivanie delle cancellerie europee: chi governava in precedenza avrebbe dovuto affrontarlo da anni con la stessa forza, e c’è da credere che avrebbe saputo farlo con metodi più urbani. Non lo ha fatto, e si è giunti a tanto.
E’ vero che nell’ultimo scorcio dell’ultima legislatura un ministro degli Interni italiano, che ha meriti indiscutibili, è riuscito a ottenere una sensibile riduzione degli sbarchi (ma non la ridistribuzione degli arrivi sugli altri Stati europei). Nessuno dei suoi precedessori ha saputo o voluto affrontare la questione come dovuto. Aver agito quando il problema era ormai ingestibile e la popolazione già esasperata, non fa modificare il giudizio su chi ha ignorato la realtà, trasversalmente a tutto l’arco parlamentare italiano, senza distinzioni di parte.
Quanto alla soluzione delle cause originarie, lasciamo ogni speranza. L’orizzonte, da dietro le scrivanie romane, non arriva oltre la punta del naso, immaginarsi se potrà mai arrivare in Africa.
Marco Ulivi ha detto:
Lavoro nel campo dell’accoglienza dei migranti richiedenti asilo. Mi si permetta di dirlo, nel campo di un’accoglienza umana e di qualità, quella contrastata a forza da questo governo, che a parole urla contro i CARA ed i grandi centri e nei fatti punisce l’accoglienza diffusa e depotenzia il sistema (più virtuoso e «federalista») degli SPRAR.
Resto d’accordo con quasi tutto il suo articolo, espressioni colorite incluse, perché nel finale c’è a mio avviso una piccola omissione. Il ministro Minniti ha sì ridotto i flussi, ma nel farlo ha tirato la volata alla destra più xenofoba e all’Italia più qualunquista accusando ad alzo zero le ONG del mare, cioè privati autorizzati dagli stati europei ad affiancare le marine nelle operazioni di salvataggio. Un’operazione non dissimile all’aiuto richiesto da 30 anni alla cooperazione sociale italiana nella gestione di svariate attività socio-assistenziali, con i pregi e i difetti del caso.
Parallelamente alla delegittimazione generalizzata del terzo settore cui assistiamo da anni in Italia, riassumibile nell’espressione di uso comune «mangiano sulle spalle di…,» è iniziata una feroce campagna denigratoria di tutte le ONG del mare, tra cui vi sono certo dei parvenu ma anche realtà solide e riconosciute da sempre per qualità professionali ed etiche. Si può discutere sullo status di naufraghi di chi parte su delle carrette, così come si può chiedere a chi ha la fortuna di sbarcare le motivazioni che lo spingono ad imbarcarsi nonostante tutto (io di storie ne ho raccolte decine), ma resta il fatto che senza un intervento di salvataggio, più o meno lontano dalle coste africane, queste persone alla prima avaria naufragano e muoiono. Che il calabrese Minniti, invece di mettere mano alla situazione delle baraccopoli come quella di Gioia Tauro o dei giganteschi e disumani CARA come quello di Mineo, a forte rischio di controllo mafioso, scagli la pietra contro navi di soccorso in mare a me pare davvero un errore amministrativo e politico molto grave.
Ma la sua colpa maggiore, una colpa storica prima che politica, è l’aver impostato questa politica di contenimento con un paese instabile e senza guida come la Libia, affidando la «gestione» di questi flussi agli stessi criminali che li organizzano, lucrandoci in regime di monopolio, regolandoli a piacimento, ed usando metodi brutali nei confronti dei migranti e ricattatori nei confronti dello stesso governo italiano. Un po’ come se lo Stato italiano avesse chiesto a Cosa Nostra di gestire e controllare il fenomeno della criminalità in Sicilia. Minniti è stato a mio avviso nei fatti la lepre che ha tirato la volata a questo governo, ben prima che qualcuno ne immaginasse anche lontanamente la nascita. Per un ex candidato alla guida del sedicente primo partito progressista italiano è una macchia politica quasi indelebile.
La saluto cordialmente, leggendola sempre con grande interesse.
Luca Lovisolo ha detto:
Buongiorno,
Per i limiti che mi impone la mia professione non entro in dettagli di politica interna dei Paesi di cui mi occupo, neppure dell’Italia, sebbene ci sia nato. Ciò premesso, è evidente che la chiusura dei centri di accoglienza è contraria a ogni logica, guardata da ogni punto di vista. Non si capisce la ratio di questi provvedimenti, come ho scritto nell’articolo, ma vi si scorge un mero intento punitivo e propagandistico.
L’arrivo del ministro che Lei cita è stato, altrettanto chiaramente, un tentativo frettoloso di mettere una pezza con qualunque mezzo a una situazione sfuggita di mano da tempo, quando ci si è accorti che la popolazione, anche la parte un tempo più ben disposta, era giunta all’esasperazione, verso il fenomeno migratorio e le sue conseguenze. Dal mio punto di osservazione, è interessante che il ministro in questione abbia cominciato un lavoro di contatto con i Paesi di provenienza: questa parte del suo lavoro andava nella direzione giusta, ma era ormai tardi e la popolazione si è lasciata convincere da chi proponeva i metodi che oggi vediamo in atto. Per quanto riguarda la Libia, concordo che aveva poco senso prendere accordi con i libici, semplicemente perché non si capiva (e in gran parte non si capisce nemmeno oggi) chi governa il territorio nei fatti. Bisogna lavorare tutti per ricostruire un’autorità in quel Paese, anziché strapparsi la coperta con francesi e inglesi; sull’altro lato, fermare i flussi di migranti prima che arrivino in territorio libico.
E’ fuor discussione che il salvataggio è inevitabile: le persone in mare vanno soccorse, il problema è ciò che c’è prima e dopo. Tutti latitano in particolare sul prima, cioè sulla prevenzione e sulla costruzione in Africa di condizioni che prevengano le migrazioni. Queste, talvolta sono dovute a situazioni reali, come anche Lei dice, ma in tanti casi sono stimolate da miraggi e illusioni che si potrebbero smontare senza grande sforzo sul nascere, volendo.
Mi trova d’accordo sulla campagna di delegittimazione che sta colpendo le organizzazioni non governative: ho contatti in Russia che mi raccontano storie simili. Sembra essere un atteggiamento piuttosto comune degli Stati autoritari o che tendono a diventarlo. Le ONG molto spesso, e non solo in Italia, svolgono attività sociali e culturali che suppliscono a deficienze dello Stato, che poi si permette di tassarle come società lucrative o denigrarne l’opera. Essere ONG non è garanzia di santità, onestà e competenza, ma il loro ruolo dovrebbe essere riconosciuto o, quanto meno, non svilito. Nondimeno, le ONG devono ricordare che devono agire nel quadro della legge: se un comandante approda e pensa di decidere lui quale Procura gradisce, come successo per la Sea Watch, oppure si lascia spazio ai sospetti di contatti con le organizzazioni di passatori, è difficile non pensare che qualcosa non funziona.
Grazie per il Suo contributo e per il Suo apprezzamento.
Cordiali saluti
LL