Quelli del Congo possono crepare

Volto africano | © Ttrevor Cole
Volto africano | © Ttrevor Cole

La situazione in Congo è tragica. Decine di gruppi di guerriglia uccidono, bruciano case, violentano donne e rapiscono bambini. Sui barconi che incrociano al largo della Libia i congolesi non ci sono, o ci sono in percentuale talmente bassa da non venir considerati nelle statistiche. Molti abitanti del Congo metterebbero firma, per potersi trasferire nei Paesi dai quali partono i migranti che arrivano in Europa con i barconi dalla Libia.


Sapevo che la situazione in Congo è tragica. Dover preparare due lezioni su quel Paese e altre realtà confinanti mi ha obbligato ad aggiornare e sintetizzare le mie conoscenze. In breve: il Congo produce più di tredici milioni (tredici-milioni) di persone bisognose di aiuto umanitario. Il 15% della sua popolazione.

Ci sono aree del Paese in cui decine e decine di gruppi di guerriglia uccidono, bruciano case, violentano donne e rapiscono bambini. Se non paghi il riscatto, anni e anni di stipendio di un congolese, ti sgozzano il figlio, a volte te lo sgozzano lo stesso anche se paghi. Poi ci sono zone in cui penetrano guerriglieri da altri Paesi, quelle in cui si scontrano i capibastone locali, mentre a ovest è scoppiata un’epidemia di Ebola, per fortuna si sta riuscendo a controllarla, almeno quella.

Molte, moltissime, forse quasi tutte quelle persone, tredici milioni e più, avrebbero diritto di chiedere asilo in altri Paesi, anche in Europa, e ottenere lo status di rifugiati. Gli sfortunati abitanti del Congo, però, in Europa non arrivano. Sui barconi che incrociano al largo della Libia non ci sono, non vengono prelevati dalle ONG, o ci sono in percentuale talmente bassa da non venir considerati nelle statistiche. Eppure, dovrebbero essere ben visibili ai primi posti. Perché?

Come tutti coloro che sono davvero esposti a un’emergenza umanitaria o politica, i congolesi cercano rifugio principalmente in zone più sicure all’interno del loro stesso Paese, oppure in Paesi confinanti, per poter più facilmente controllare ciò che avviene a casa loro e poterci tornare quanto prima. Vale anche per i siriani e altre situazioni simili: quelli che arrivano in Europa sono una frazione dei milioni di siriani che fuggono dalle zone di guerra spostandosi in altre regioni della stessa Siria o nei Paesi limitrofi.

Se si esclude un piccolissimo sbocco sull’oceano, il Congo è un Paese lontano dal mare e coperto da montagne e foreste, stupende, che però rendono difficilissimo muoversi via terra.

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Il Congo è da sempre politicamente instabile e non ha vissuto un ordinato sviluppo economico. Le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani sanno che in Congo non c’è, o non c’è nella stessa misura, quella classe media che esiste invece in Paesi dell’Africa nordoccidentale, in grado di pagare i passaggi illegali verso l’Europa. Ci sono i ricchi, ma non hanno bisogno di fuggire e se vogliono hanno i loro mezzi. Poi ci sono i poveri, che non potranno mai pagare migliaia di euro per farsi traghettare in Europa, non le hanno neppure per pagare i riscatti e liberare i loro bambini rapiti dai guerriglieri, che ritrovano poi qui e là cadaveri e mutilati.

Inoltre, mentre dai Paesi dell’Africa occidentale è relativamente facile organizzare traffici di esseri umani verso il Mediterraneo attraverso la rotta transahariana, dal Congo sarebbe pressoché impossibile. Le organizzazioni criminali non hanno convenienza ad avviare il business. Tredici milioni e mezzo, solo nel Congo. Ieri è uscito il rapporto del Consiglio ONU per i diritti umani: in tutto il mondo le persone costrette a spostarsi per ragioni simili sono più di 68 milioni. In Europa sono arrivate, negli ultimi anni, alcune centinaia di migliaia di persone («migranti»), ma da dove?

In larga prevalenza, da Paesi che non saranno il paradiso in terra, ma che hanno superato da tempo le tragedie del Congo. Hanno condizioni economiche e politiche relativamente stabili, rispetto a vent’anni fa. Certo, anche lì ci sono situazioni difficili, ma attenzione a non perdere il senso delle proporzioni. Molti abitanti del Congo metterebbero firma, per potersi trasferire nei Paesi dai quali partono i migranti che arrivano in Europa con i barconi dalla Libia: quelli che noi abbiamo eletto a strumenti della nostra correttezza politica, o della nostra santità, per mostrare, quando arriverà il giorno del Giudizio, l’attestato di virtù di «accoglienza» che ci farà ammettere in Paradiso. Quelli del Congo, intanto, possono crepare.

Sento caporioni politici, preti, papi, parlare di «accoglienza.» Non ne sento mai nessuno dire: «Prendete stivali e badili, andate in Congo. Rischiate di prendervi Ebola. Impantanatevi con le jeep nella savana per andare a tirar su tende e costruire campi profughi. Fate funzionare ospedali e cucine da campo. Unitevi ai soccorritori.» No, questo non ti fa guadagnare il paradiso. Devi «accogliere» altrimenti non sei cristiano, anzi, sei fascista, è l’ultima moda, se dici che nella bolla delle migrazioni verso l’Europa, quelle dei barconi, c’è qualcosa che non va, e più approfondisci i dati e le situazioni, più vedi che c’è qualcosa che non va, e più sei un anticristo, e più sei un «fascista.» E poi c’è l’estremo opposto, che ne è la naturale conseguenza, perché ogni estremo genera il proprio contrario, e alla fine si toccano: il razzismo, l’ignoranza, i censimenti razziali, il rifiuto del diverso perché è così e basta.

Ad aprile si è tenuta a Ginevra una conferenza di donatori: si sperava di raccogliere 2 miliardi di dollari, per sostenere il Congo: sono arrivati poco più di 600 milioni, meno di un terzo. Ma noi siamo accoglienti. Il paradiso è a portata di mano, la tessera del partito è salva, gli amici al bar non mi diranno «fascista.»

Tredici milioni e mezzo. Solo in Congo. C’è qualcosa di profondamente marcio, dietro questa correttezza politica e morale, ma anche dietro il suo contrario.

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Luca Lovisolo

Lavoro come ricercatore indipendente in diritto e relazioni internazionali. Il mio corso «Capire l'attualità internazionale» accompagna chi desidera comprendere meglio i fatti del mondo. Con il corso «Il diritto per tradurre» comunico le competenze giuridiche necessarie per tradurre testi legali da o verso la lingua italiana.

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    Lavoro come ricercatore indipendente in diritto e relazioni internazionali. Con le mie analisi e i miei corsi accompagno a comprendere l'attualità globale chi vive e lavora in contesti internazionali.

    Tengo corsi di traduzione giuridica rivolti a chi traduce, da o verso la lingua italiana, i testi legali utilizzati nelle relazioni internazionali fra persone, imprese e organi di giustizia.

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