Una capotreno fa notizia per un messaggio poco ortodosso rivolto a viaggiatori di Rom. Non serve dire che in tutta Italia la percentuale di migranti sulla popolazione complessiva è dell’ics percento. Importano le situazioni concrete. La cittadinanza, nel valutare la presenza di migranti, la commisura alle situazioni che vive ogni giorno sui treni, nelle scuole, nei quartieri periferici.
Una capotreno del Nord Italia finisce in cronaca per aver trasmesso attraverso l’altoparlante un messaggio poco ortodosso rivolto a viaggiatori di etnia Rom. L’uso dello strumento e i toni scelti sembrano inadeguati. Se così è, l’interessata ne subirà le conseguenze dovute. Vi è un altro aspetto della questione che merita di essere considerato.
Viaggio ormai poco in Italia. D’estate, però, mi capita più spesso, per qualche incombenza che non si può risolvere durante l’anno o qualche piccola escursione. Proprio nelle ore in cui infuria il caso della capotreno, mi trovo in Piemonte, in una zona turistica, certamente non depressa. Salgo su un regionale e decido di fare un personale rilievo sul campo. Percorro tutto il treno, un piccolo convoglio «Minuetto» a composizione bloccata, due testate contrapposte e una carrozza centrale, senza barriere intermedie, poco più di 150 posti a sedere totali. Censisco i passeggeri. Ci sono 14 migranti e 16 altri viaggiatori, tra italiani e turisti stranieri. Gran parte dei migranti occupano un’intera sezione di coda. In testa, due poliziotti, seduti poco lontano dalla cabina del macchinista.
Il disagio è palpabile: per le chiacchiere a voce inutilmente alta, per gli odori, per l’atteggiamento dei migranti, ai quali non oseresti rivolgerti neppure per chiedere l’ora, immaginarsi per pregarli di abbassare la musica. Non hanno il biglietto. Significa che noi paghiamo, loro no. Quando il controllore arriva, li invita a scendere. Intanto ne salgono altri. Scendo anch’io: mi fermo cinque minuti al distributore automatico, prima di uscire in città, devo fare il biglietto per proseguire più tardi. In stazione ci sono soltanto migranti: venti, trenta. Sciabattano sui marciapiedi, si parlano forte da un binario all’altro nelle loro lingue. L’unico diverso sono io. Riservano anche a me qualche gentile espressione, consapevoli che li sto osservando. Non stanno andando a lavorare: dopo un’ora torno in stazione e sono ancora tutti lì intorno, a far nulla.
Io me ne vado, ma il personale delle ferrovie, in vettura e in stazione, dovrà passare la giornata a gestire persone e situazioni come queste. D’accordo, sul treno c’erano due poliziotti: due poliziotti? Ho vissuto e viaggiato per decenni, in queste zone. Non si è mai sentito il bisogno di avere la polizia sui treni, neanche a mezzanotte. Adesso sì, alle due del pomeriggio.
Il giorno prima, sulla stessa tratta ma in direzione opposta, avevo assistito a situazioni simili, più o meno con le stesse proporzioni numeriche. Fino a un paio d’anni fa, dalla Svizzera scendevo periodicamente a Milano, la sera, per seguire un’attività culturale che mi interessava. Tra le ragioni che mi hanno imposto di rinunciarvi, lo stato dei treni da Milano, dopo le nove e mezza di sera. Il capotreno si chiudeva in cabina con il macchinista. Noi viaggiatori, sempre più sparuti, dietro, costretti a tollerare ogni abuso da parte di soggetti che fumavano nonostante il divieto, questuavano, ascoltavano radio a manetta, allungavano piedi sporchi sui sedili. Il treno restava lunghi minuti fermo al buio, a porte aperte, nelle stazioni senza personale della campagna fra Monza e Como. Chiunque poteva salire, scendere, rubare, picchiare, andarsene impunito. Non sono donna, ho più di cinquant’anni e sono abituato per mestiere a viaggiare anche in situazioni, diciamo così, piuttosto insolite. Eppure, su quei treni, dopo una certa ora, non voglio più salire.
Non si dica, per favore, che «anche gli italiani (o gli svizzeri, o i francesi, o i vattelapesca) a volte non pagano il biglietto, si comportano male, non rispettano le regole.» Stiamo parlando d’altro: stiamo parlando di fenomeni un tempo sporadici e puniti, ma oggi diventati normali e tollerati anche dall’autorità, causati dall’immigrazione irregolare. Sul treno di ieri, la percentuale di migranti sui cittadini europei era del 45% su 55%: a decidere la musica da ascoltare e a determinare il clima di viaggio erano loro. Nessuno gradiva, ma nessuno osava dire nulla. Non intervenivano nemmeno i poliziotti: sarebbero intervenuti se qualcuno si fosse lamentato, ma nessuno si lamentava. Forse temevamo tutti la stessa cosa: il rischio che nascesse qualche discussione, che il treno venisse fermato, che si accumulassero ritardi e si perdessero coincidenze. Alla fine, tutti sopportavamo in silenzio, una sopportazione che diventa rabbia nascosta.
Non serve dire che in tutta Italia la percentuale di migranti sulla popolazione complessiva è dell’ics percento, perciò che vuoi che sia. Non serve dire che tra i migranti ci sono anche ottime persone, cosa di cui nessuno dubita: non è un gioco di compensazione. Sopporta il migrante che ti rende impossibile la vita in treno, a trecento chilometri ce n’è uno bravissimo, lavoratore, rispettoso. Importano le situazioni concrete. Qualche settimana fa si è letta sui quotidiani italiani un’interessantissima inchiesta: la presenza di migranti percepita dalla popolazione sarebbe tre volte superiore a quella effettiva. La colpa, secondo gli autori dello studio, sarebbe in gran parte dell’esagerazione del fenomeno dovuta ai media. Ottima l’inchiesta, ma errata, almeno in parte, la conclusione.
La cittadinanza, nel valutare la presenza di migranti, non fa calcoli matematici sulla totalità della popolazione. La commisura alle situazioni che vive ogni giorno sui treni, nelle scuole, nei quartieri periferici, nelle zone circostanti le stazioni e i mercati. Se viaggi in automobile o sul Frecciarossa, potresti anche non accorgerti di nulla. Se prendi i treni pendolari della Domodossola-Novara o i regionali a tarda sera della Milano-Como-Chiasso, la tua vita, da quando ci sono i migranti, è cambiata.
C’è chi pensa che richiamare l’attenzione su questi disagi e dire che sono reali e che andrebbero ascoltati, significa razzismo, persino fascismo. Forse avrebbe bisogno di un dizionario e di un libro di Storia. Poi c’è chi dice che si dovrebbe accettare tutto ciò in nome dell’amore universale, di un mondo senza frontiere in cui tutti sono a casa propria ovunque, concetti che crescono in quella fascia comune di pensiero in cui il cattolicesimo e il marxismo si sovrappongono e danno entrambi il peggio di sé.
Sentire il bisogno di riconoscersi in una comunità in cui si rispettino alcuni valori condivisi (che non hanno nulla a che fare con il colore della pelle) non si può tacciare tout court di nazionalismo, di egoismo o di paura del diverso. E’ un elemento essenziale del patto sociale. Il patto sociale deve poter funzionare senza bisogno di mettere due poliziotti per garantire la sicurezza su un treno con trenta viaggiatori.
La popolazione, compressa da quella sopportazione che diventa rabbia silenziosa, reagisce come vediamo. Vota quelli che le promettono di non farla più sentire straniera in casa propria. Tutto ciò che questa promessa si porta dietro diventa legittimo, un trascurabile danno collaterale della battaglia principale.
Perché, appena rientro in Svizzera, queste situazioni spariscono, letteralmente, al confine, sebbene la quota di richiedenti asilo e di stranieri qui sia, proporzionalmente alla popolazione, ben superiore a quella che si registra in Italia? Perché l’amministrazione funziona, perché non ci sono predicatori e falsi profeti, perché se sei in regola stai dentro e righi dritto, altrimenti sei fuori. Alla fine, stanno meglio anche i migranti. «Eh, ma l’Italia è circondata dal mare…» Bene, allora Roma accetti di rinunciare a controllare il territorio, e così faccia ogni Stato costiero o insulare: dichiari la propria inesistenza.
E’ stato un errore culturale enorme, tollerare gli abusi della migrazione incontrollata con il pretesto dell’accoglienza, tacciando di razzismo e ignoranza chiunque chiedesse semplice legalità e controllo sul territorio, perché vedeva la sua vita quotidiana, in casa propria, sui suoi treni, nei luoghi di ogni giorno, peggiorare sino all’impossibile.
Tornando alla capotreno da cui siamo partiti: se ha fatto cattivo uso degli strumenti a sua disposizione, è giusto che sia sanzionata. Ogni sanzione, però, dev’essere comminata tenendo conto delle circostanze in cui è stato commesso il fatto. Le attenuanti a suo favore potrebbero non essere poche.