Perché Hong Kong non è solo questione cinese

La nuova legge sulla sicurezza nazionale
Hong Kong, tempio di Wong Tai Sin | © chromatograph

L’annunciata nuova legge cinese sulla sicurezza nazionale e le conseguenze sulle libertà fondamentali di Hong Kong. La questione non è un fatto locale del quale siamo autorizzati a non curarci. Se ve ne era bisogno, la pandemia ha dimostrato che la nostra qualità di vita dipende direttamente dal rispetto dei diritti fondamentali in ogni parte del mondo. Un monito sull’eredità del colonialismo.


L’annunciata promulgazione di una legge cinese sulla sicurezza nazionale che avrà serie conseguenze sulle libertà fondamentali nella città ad amministrazione speciale di Hong Kong è una sorta di chiusura del cerchio, rispetto all’emergenza sanitaria dalla quale i Paesi europei vengono risollevandosi con fatica e che ha preso le mosse proprio dalla Cina. La vicenda di Hong Kong ci riguarda da vicino per alcuni motivi.

Dopo la cessione alla Cina, avvenuta nel 1997, l’ex colonia inglese di Hong Kong beneficia di un regime particolare, benché sia parte della Repubblica popolare cinese.

Una convivenza sintetizzata nel detto «un Paese, due sistemi» e che assicura agli abitanti di Hong Kong alcune libertà fondamentali inesistenti nel resto della Cina, governata, come noto, da un regime autoritario.In particolare, a Hong Kong vigono libertà di espressione e di riunione, alcune libertà economiche e la separazione tra potere giudiziario e potere politico, garanzie sconosciute a tutti gli altri cittadini cinesi. Vediamo come il sistema è giunto al collasso e quali conclusioni trarne.

Si tratta di libertà costituzionali tipicamente occidentali che rappresentano l’eredità del periodo di controllo inglese sulla città. La riconsegna di Hong Kong alla Cina da parte del Regno unito, in adempimento di un antico accordo fra i due Paesi, avvenne alla condizione che queste garanzie fossero rispettate, attuando una zona ad amministrazione speciale. Hong Kong dispone di una propria Costituzione in cui sono fissati questi principi, di un proprio governo e di un parlamento locale. Benché il governo centrale cinese eserciti un’influenza molto pesante su questi organi, anche attraverso il sistema di scelta delle candidature, Hong Kong resta un’isola di libertà, rispetto al resto del Paese.

Nei mesi e anni scorsi la Cina ha tentato in diverse occasioni di scavalcare l’autonomia di Hong Kong, più di recente cercando di portare sotto il proprio controllo almeno in parte le procedure giudiziarie, con una discussa legge sull’estradizione. Nel 2019, le lunghe dimostrazioni contro questo provvedimento hanno portato Hong Kong sulle prime pagine di tutto il mondo. La nuova Legge sulla sicurezza nazionale, della quale si parla in questi giorni, è allo stato di proposta, ma ha già fatto risalire la tensione a Hong Kong, dopo la quiete artificiale imposta dalla crisi sanitaria. Il provvedimento non propone alcunché di particolare, letto superficialmente: sanzioni penali per condotte che mirino alla secessione, alla sovversione e al compimento di atti terroristici o per azioni di soggetti stranieri nel territorio di Hong Kong.

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Se si conoscono i metodi dei regimi autoritari, però, allo scorrere le cause di applicazione della legge suona un campanello d’allarme. Ogni azione di protesta sociale o di semplice dissenso politico diventerà facile pretesto di condanna, azzerando le libertà fondamentali che distinguono Hong Kong dal resto della Cina. Come sottolinea Grace Tsoi, che segue la questione per la BBC, il timore degli abitanti della città è che le autorità incaricate di applicare la legge sul posto saranno espressione diretta del governo di Pechino, non di quello locale. Quest’ultimo, da parte sua, ha già confermato che non si opporrà all’entrata in vigore della nuova legge nell’ex colonia inglese.

Vi sono due aspetti che rendono questa vicenda di grande attualità per tutti noi. La Cina è all’origine della disastrosa pandemia del nuovo Coronavirus: il regime autoritario di Pechino ha incarcerato per motivi politici il primo medico che segnalò il diffondersi del morbo, rallentando dolosamente le azioni di contrasto, ed è sospettato di aver taciuto alle autorità sanitarie internazionali dati essenziali per prevenirne la diffusione globale. Con una campagna di propaganda tristemente efficacissima, la Cina è riuscita non solo a mitigare le conseguenze negative di queste condotte sulla propria reputazione, ma, anzi, ha accresciuto il proprio credito: in Italia, più sondaggi d’opinione condotti da diverse società di rilevazione mettono in luce questo dato senza contraddizioni. SWG, in particolare, attesta che il numero di italiani convinti che il loro Paese dovrebbe allearsi con la Cina è passato, durante la pandemia, dal 10% al 52%.

La questione di Hong Kong non è un fatto di politica interna cinese del quale siamo autorizzati a non curarci, come ha affermato un incauto ministro italiano, durante le fasi più acute delle proteste dello scorso anno. In un mondo globalizzato, dove si viaggia e si vive in uno spazio comune, è indispensabile che i diritti fondamentali che sono patrimonio specifico dell’Uomo, quale che sia la sua appartenenza nazionale, siano garantiti ovunque: una maggiore libertà di espressione e circolazione delle informazioni, in Cina, avrebbe evitato o ridotto drasticamente il diffondersi e i danni del contagio da Coronavirus. Se ve ne era bisogno, la pandemia ha dimostrato che la nostra qualità di vita e la nostra prosperità stanno in relazione diretta con il rispetto dei diritti fondamentali in ogni luogo, anche in regioni apparentemente lontane dai nostri interessi.

Infine, la vicenda di Hong Kong fa riflettere su un importante elemento storico e culturale. Proprio in questi giorni, il 25 maggio, si celebra la Giornata dell’Africa. Questa data è stata scelta perché coincide con la costituzione dell’Organizzazione per l’unità africana, dal 2002 trasformata in Unione africana, sul modello dell’Unione europea. L’evento è rimasto nella Storia come prima pietra miliare dello sviluppo dell’Africa moderna, dopo la fine della secolare dominazione da parte degli imperi coloniali europei. La decolonizzazione si compì tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta del Novecento. Si scelse il 25 maggio 1963 come data simbolo per l’inizio di una storia di dignità e indipendenza del Continente.

Quando protestano contro il governo di Pechino, gli abitanti di Hong Kong, ex colonia inglese, danno un messaggio che scandalizza: quando eravamo una colonia, stavamo meglio. Che i secoli di colonialismo abbiano lasciato dietro a sé iniquità e violenze i cui segni permangono ancora oggi, in molte parti del mondo, è fuor di dubbio. Tuttavia, i cittadini di Hong Kong, oggi, quando scendono nelle piazze della loro città per protestare contro la prepotenza del governo autoritario di Pechino, lo fanno per tutelare le libertà che hanno conosciuto grazie alla presenza coloniale degli europei nel continente asiatico.

Le garanzie dello Stato di diritto non sono scontate e non sono patrimonio di tutte le culture. In Europa ne godiamo, ne siamo stati in larga parte inventori e ne siamo ambasciatori nel mondo.

Non dovremmo cedere troppo facilmente al fascino dei regimi autoritari, da Pechino a Mosca, che le cancellano in casa propria e agiscono senza alcun ritegno per rimuoverle anche altrove. Le conseguenze, come ci mostrano gli effetti della pandemia, giungono fin nelle nostre case.

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Luca Lovisolo

Lavoro come ricercatore indipendente in diritto e relazioni internazionali. Il mio corso «Capire l'attualità internazionale» accompagna chi desidera comprendere meglio i fatti del mondo. Con il corso «Il diritto per tradurre» comunico le competenze giuridiche necessarie per tradurre testi legali da o verso la lingua italiana.

Commenti

  1. Luigi Tesio ha detto:

    Grazie. Articolo davvero interessante. Un commento/domanda. Il flash che l’articolo spara per un millisecondo sul colonialismo fa intravvedere un enorme argomento storico represso. Il quale argomento, secondo me, è anche antropologico. Il gap antropologico ha portato a sviluppo socio-culturale ed economico diverso in diverse aree del pianeta: un gap che all’estremo si può considerare di oltre 15.000 anni fra uno stato europeo e una tribù della Nuova Guinea. Il gap può essere visto o meno come gerarchico, a seconda della prospettiva valoriale. In ogni caso l’esplosione della comunicazione porta ancor più a confronto i diversi modelli. Il colonialismo è stato un conflitto anche antropologico, in generale violento (fino al genocidio, non di rado): ma non soltanto violento. Se sia giusto e/o conveniente per l’Occidente proporre i suoi valori a chi occidentale non è (e se sì, come farlo) mi pare il vero tema macropolitico sotteso al suo articolo: Hong Kong come invito a ristudiare in modo neutrale il Colonialismo?

    • Luca Lovisolo ha detto:

      Sul colonialismo restano molti punti di domanda. Si tratta di questioni molto delicate: che il colonialismo abbia seminato violenze e iniquità non è in discussione. D’altra parte, non bisogna cadere nella semplificazione «anche il colonialismo ha fatto cose buone,» già diffusa in altri contesti, e che non porta da nessuna parte. Le «cose buone» non cancellano per compensazione quelle cattive. In ogni caso, una lettura del colonialismo depurata dalle pesanti sovrastrutture ideologiche del Novecento sarebbe molto desiderabile, ma passerà ancora del tempo. Mentre nel caso dell’Africa la decolonizzazione metteva gli individui di fronte alla prospettiva del riscatto da una dominazione esterna, a Hong Kong il ritorno della città alla Cina, avvenuto quando la dominazione coloniale era ormai poco più che formale e garantiva condizioni di libertà maggiori dei Paesi vicini, segna un regresso dallo standard europeo a quello asiatico. Il punto centrale è questo: vogliamo affermare che i diritti e le libertà fondamentali dell’Uomo sono universali, oppure no? In altre parole: sono diritti dell’Uomo in quanto tale, oppure solo di alcune culture o etnie? Se sono diritti universali, allora non si può affermare che siano «imposti» dall’Occidente agli altri: tutti devono poter goderne ovunque. Se, al contrario, si ritiene che i diritti fondamentali siano riservati ad alcuni ma ad altri no, bisogna spiegare sulla base di quale criterio avverrebbe la distinzione e perché per una parte degli uomini dovrebbe essere accettabile vivere in condizioni di oppressione e privazione dei diritti fondamentali. La questione è molto attuale e meno evidente di quanto sembri. LL

  2. Giulia Corazza ha detto:

    Lucida analisi Dottore, grazie

    • Luca Lovisolo ha detto:

      Grazie, ma… non sono dottore! LL

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Lavoro come ricercatore indipendente in diritto e relazioni internazionali. Con le mie analisi e i miei corsi accompagno a comprendere l'attualità globale chi vive e lavora in contesti internazionali.

Tengo corsi di traduzione giuridica rivolti a chi traduce, da o verso la lingua italiana, i testi legali utilizzati nelle relazioni internazionali fra persone, imprese e organi di giustizia.

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