
Il concetto di «società aperta» ci aiuta a ordinare i fatti che stanno accadendo nel mondo. Un termine relativamente nuovo, nel nostro vocabolario. Deve il suo successo alle scienze sociali, alla storia del Dopoguerra. Chi lo usa pensa di solito alla celebre opera del filosofo Karl Popper. Sbagliamo, se pensiamo che la maggioranza degli uomini desideri vivere in una società aperta.
L’espressione «società aperta» e il suo contrario «società chiusa» compaiono sempre più frequentemente, nella comunicazione. I loro corrispondenti nelle lingue più diffuse sono: open / closed society (EN); société ouverte / close (FR); offene / geschlossene Gesellschaft (DE); открытое / закрытое общество (RU). Questa espressione è abituale anche come modo di dire: è «aperta» una società fatta da persone disponibili al confronto, o semplicemente simpatiche, che agiscono in un contesto contraddistinto da facilità di incontro e da un libero scambio intellettuale. «Sono stato in Thailandia, ho incontrato ovunque persone gentili: la Thailandia è una società molto aperta.» Questo modo di esprimersi, nel linguaggio comune, è senz’altro adeguato, sebbene la Thailandia non sia affatto una società aperta, o almeno non nel senso che intendo trattare qui e che definisce il valore reale del termine di cui stiamo parlando.
La causa del ritrovato successo di «società aperta» va cercata, da una parte, nelle scienze sociali, e in particolare nella filosofia sociale e politica; dall’altra parte, nella storia del Dopoguerra e della crescente globalizzazione, particolarmente degli ultimi dieci anni. Il concetto di «società aperta» proviene dall’opera del filosofo francese Henri Bergson (1859-1941), che lo definì nel suo ultimo libro Le due fonti della morale e della religione (Les deux sources de la morale et de la religion, 1932). Due diversi modelli di società, quella aperta e quella chiusa, nascono, secondo Bergson, da due diversi tipi di morale, quella aperta e quella chiusa, nonché da due tipi di religione, quella statica e quella dinamica.
Per Bergson, la società aperta non si accontenta della lotta per l’autoconservazione: crea le condizioni per dare espressione a singoli individui che agiscono come precursori in un’umanità che si rinnova costantemente. Secondo Bergson, la società aperta è la prosecuzione ininterrotta dell’atto iniziale della creazione e, in questo continuo sviluppo, le barriere tra i diversi gruppi sociali vengono costantemente superate. E’ chiusa, al contrario, quella società fatta di gruppi concentrati su se stessi e reciprocamente contrapposti, che lottano per la sopravvivenza sottraendosi a uno sviluppo comune.
La percezione moderna
Ciò che Bergson formulò ancora con toni mistico-religiosi fu ripreso più tardi dal filosofo viennese Karl Popper (1902-1994) in una più concreta visione della società aperta, come rappresentazione della democrazia liberale: chi, oggi, usa l’espressione «società aperta,» lo fa di solito pensando alla celebre opera di Popper La società aperta e i suoi nemici. Popper scrisse questo monumentale testo in due volumi, pubblicato poi nel 1945, durante la seconda Guerra mondiale, in Nuova Zelanda, dove aveva trovato rifugio a causa della sua origine ebraica. L’opera nacque dopo i crimini perpetrati da nazismo, fascismo e comunismo.
Popper indaga in essa il retroterra storico-filosofico dell’autoritarismo, a partire dalla Repubblica di Platone, e individua i denominatori comuni delle società chiuse e totalitarie, indipendentemente dal loro orientamento ideologico. Infine, cristallizza gli elementi oggettivi di una società aperta, individuandoli nella libera espressione delle capacità critiche degli individui in un corso storico non predeterminato e in un libero scambio intellettuale. Al contrario, le società chiuse, ideologicamente orientate, mettono l’uno contro l’altro i diversi gruppi sociali offrendo promesse di liberazione preconfezionate, in base a razza, nazionalità, preminenza economica o contrapposizione di classe.
Dal punto di vista dell’ordinamento, afferma Popper, le società aperte si instaurano in Stati nei quali vigono la divisione dei poteri e un’equilibrata rappresentanza di tutte le componenti sociali negli organi di governo. Le società chiuse sono invece guidate dall’alto verso il basso e il principio della divisione dei poteri non vi è rispettato: i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, ma anche i media, il dibattito intellettuale e l’economia agiscono subordinati a uno scopo prefissato. Lo Stato costituisce un contesto sociale da autoritario a totalitario, condotto da una sola persona o da un gruppo ristretto, secondo promesse ideologiche o missionaristiche.
Questo è il retroterra del concetto di «società aperta [o chiusa]:» un termine che oggi accade di sentire e leggere sempre più frequentemente, poiché il gioco contrapposto fra società aperta e chiusa esprime in modo particolarmente efficace le tensioni della nostra realtà globalizzata e fa riconoscere nelle considerazioni di Henri Bergson, ma ancor più in quelle di Karl Popper, un tratto profetico.
Noi viviamo in società (ancora) aperte
La società aperta è quella in cui viviamo noi oggi, in Europa occidentale, dalla fine della seconda Guerra mondiale. E’ una novità relativamente recente, nel millenario sviluppo del genere umano. Mai prima d’ora era esistito un modello di società simile, nel quale vi è una sostanziale parità di opportunità, godiamo di libertà di espressione e religione ed esiste la possibilità di muoversi in modo relativamente libero orizzontalmente e verticalmente all’interno della società stessa. Un modello che ha bisogno di costanti adeguamenti e presenta delle lacune, ma le condizioni che offre a noi, oggi, erano inimmaginabili per i nostri antenati di sole tre o quattro generazioni prima di noi.
Sbagliamo, però, se pensiamo che la maggioranza degli uomini desideri vivere in una società aperta. Molti individui si sentono più protetti da una società chiusa: questa convinzione è comprensibile, ma non è sensata. Nonostante ciò, viene ripresa da incauti leader d’opinione e trasformata in massime per i mezzi di comunicazione di massa, iniziative sociali e partiti politici, che ottengono quasi inevitabilmente consensi. La società aperta è una società costruita sui valori fondamentali, mentre la società chiusa si basa sulle identità e mette al centro gli interessi di gruppi e corporazioni. La maggioranza degli individui, particolarmente nei momenti di ristrettezza economica, riconosce più facilmente questi interessi, rispetto alla narrativa dei valori fondamentali, che vede piuttosto come un insieme di vaghe promesse. Che l’eccessiva sottolineatura delle identità e degli interessi corporativi porti a lungo termine solo a maggiori tensioni, che impediscono uno sviluppo comune e sfociano in conflitti disastrosi, i sostenitori delle società chiuse non vogliono sentirselo dire, sin quando non cadono loro stessi vittime di tali conflitti.
Spesso la società chiusa e autoritaria viene definita «società tradizionale,» accade di leggere testi in cui i due termini sono usati indistintamente. Ciò si riconosce chiaramente nella narrativa pubblica presente in alcuni Paesi, anche molto diversi fra loro. In Russia, Polonia e Turchia, per citare solo tre esempi, la retorica dei «valori tradizionali» è onnipresente. Dietro questo slogan si nasconde un modello di società chiusa, ispirato al motto «Dio, patria e famiglia,» che resta attraente per quei molti individui che non riescono a interagire con una società aperta, in cui i rapporti mutano costantemente.
Una componente ulteriore delle società chiuse sono le ali più conservatrici delle Chiese. Con l’eccezione dei regimi che si oppongono alle religioni (ad esempio le vecchie repubbliche popolari socialiste dell’Europa orientale), le Chiese sostengono senza difficoltà l’autoritarismo e scambiano il loro favore con una corrispondente concessione di influenza politica. Così fu, ad esempio, durante il fascismo in Italia e nelle dittature del Sud America, ed è così oggi in Russia. La società chiusa, d’altra parte, corrisponde a un modello di organizzazione rigidamente gerarchica particolarmente amato dalle Chiese. Nonostante il loro formale adeguamento ai principi dello Stato laico e di diritto, le Chiese guardano ancora con scetticismo a una società libera e aperta. Laddove lo Stato di diritto si indebolisce, come sta accadendo in questi anni in Polonia e Ungheria, gli organi ufficiali della Chiesa si pongono sempre a fianco dei governi. Da vescovi e sacerdoti non si sente una parola contro la perdita delle garanzie costituzionali. I rappresentanti delle ali più progressiste della Chiesa, che pur esistono, vengono marginalizzati.
Gli sviluppi più recenti: Trump, Putin, Brexit
A partire dal 2007, anno in cui la Russia di Vladimir Putin ha rimodellato radicalmente la propria politica estera, la separazione fra società occidentali e il modello di società tipico dell’Asia e del Medio oriente si è fatta ancora più profonda. Per classificare questi eventi, ancora una volta, ci serve il termine «società aperta» contro «società chiusa.» Con gli interventi militari in Georgia (2008), Ucraina (2014) e Siria (2015), poi attraverso le alleanze con l’Iran, la Turchia e una serie di Stati appartenenti allo spazio ex sovietico, la Russia ha assunto la guida di un movimento che sostiene, con sofisticati mezzi intellettuali e militari, la società chiusa e autoritaria come l’unico modello di sviluppo capace di futuro. Lo fa con argomenti fortemente ispirati al nazionalismo, concettualizzati a Mosca sulla base dell’opera di Aleksandr Isaevič Solženicyn (1918-2008), Aleksandr Gel’evič Dugin (1962- ) e altri autori che sviluppano modelli di pensiero di orientamento fascista. Altrove, ad esempio a Cuba, in Corea del Nord e Venezuela, la narrativa della società chiusa riprende invece motivi della tradizione marxista-leninista.
La tendenza al rifiuto della società aperta si osserva anche in Paesi nei quali non ce lo si sarebbe aspettato. L’uscita del Regno unito dall’Unione europea, l’affermazione recente dell’estrema destra in Germania e la vittoria di Donald Trump negli Stati uniti sono esempi di fatti che si volgono contro i principi della società aperta. In Italia, il Paese europeo in cui, per motivi storici e religiosi, regnano le più forti diffidenze verso rapporti sociali modernamente concepiti, mietono successi i leader d’opinione che si pronunciano a favore di un’economia fortemente diretta dallo Stato e per la concessione di favori a singoli gruppi, nascondendosi dietro al pretesto dei «valori tradizionali.»
Non è un caso che i sostenitori delle società chiuse, in Russia come in Italia, in Turchia come in Polonia e negli Stati uniti, utilizzino slogan sorprendentemente simili tra loro, talvolta identici persino nella scelta delle parole. La linea di separazione fra i gruppi sociali favorevoli a una società aperta e quelli che la temono passa ben al di sopra delle frontiere nazionali e di quelle tra «destre» e «sinistre» a cui siamo abituati. Non giocano alcun ruolo nemmeno le contrapposizioni fra interessi geopolitici o le profonde inimicizie storiche, come dimostra il caso Russia e Polonia. Due Paesi divisi da un passato conflittuale e da un presente difficile si ritrovano uniti nel rifiuto della società aperta.
Anche la società aperta conosce i suoi eccessi: non impedisce, per sé, l’imporsi di interessi particolari. Essa, però, offre molte più opportunità per compensare le differenze e tollerare scostamenti e diversità. Nessuno è riuscito a inventare un modello più convincente, sinora. L’alternativa alla società aperta è la dittatura.
Il termine «società aperta» è un esempio di come un’espressione linguistica diventi specchio dei cambiamenti della civilizzazione umana. Senza questo concetto, relativamente nuovo, e senza le sue profonde radici, una gran parte degli eventi che accadono intorno a noi nel mondo resta inspiegabile.
| >Originale in lingua tedesca (traduzione italiana dell’autore)