Il generale iraniano ucciso non era un operatore di pace, sebbene sia stato dipinto così. Era autore di una strategia del terrore animata dall’Iran, operante in tutto il Medioriente. Ciò non ne giustifica però l’eliminazione per mano degli USA. La Turchia, entrata in Libia, controllerà anche la via mediterranea delle migrazioni. Imporrà all’Europa ciò che vorrà, girando il rubinetto dei flussi migratori.
Rispondo, dal mio punto di osservazione, a coloro che mi chiedono lumi sugli eventi internazionali che hanno suscitato clamore in questi giorni. Formulo alcune considerazioni generali, che ritengo utili. Valutare nei loro effetti regionali l’uccisione in Iraq del generale iraniano Qasem Soleimani e l’approvazione dell’intervento militare turco in Libia presuppone analisti specializzati in quelle aree, e io non sono fra questi. Gli esperti in grado di penetrare quegli scenari sono pochissimi, molti meno dei tanti fantasisti che in queste ore si propongono come tali.
Il generale iraniano ucciso dagli statunitensi non era un operatore di pace, sebbene sia stato dipinto così. In questo, le principali fonti d’informazione italiane, come fanno ormai da tempo, hanno ripreso fedelmente la versione di Mosca. Sentire i notiziari italiani e quelli russi, nelle ore successive al fatto, induceva alla stessa interpretazione: un eroe della lotta contro il terrorismo, ucciso per la prepotenza USA. Il popolo iraniano piange in massa la sua scomparsa.
Qasem Soleimani, i media italiani
Non è il caso: Soleimani era autore di una strategia del terrore animata dall’Iran, di marca sciita, operante in tutto il Medioriente. Gli USA hanno affermato di averlo ucciso per difendersi da attacchi a cittadini, ambasciate e altri interessi statunitensi nella regione. Non è un pretesto, come invece si è letto. Gli attacchi a interessi USA lanciati da soggetti facenti capo a Soleimani si sono moltiplicati, nelle settimane scorse, anche se la notizia non sempre è arrivata al grande pubblico, e altri erano in programma.
Non tutto il popolo iraniano ha pianto Soleimani, anzi è possibile che in maggioranza non abbia reagito male alla sua soppressione, poiché il generale era uno degli artefici più cinici della repressione contro la dissidenza interna al regime di Teheran, una pentola a pressione sempre più vicina al limite di esplosione. Non è bene fermarsi alle immagini televisive delle folle piangenti, la popolazione non è tutta lì e un regime autoritario gestisce le folle come vuole.
L’uccisione di Soleimani da parte degli USA
Gli argomenti appena esposti non giustificano l’uccisione di Soleimani per mano degli Stati uniti, che se ne sono gloriati. A parte le implicazioni morali, che purtroppo in questi contesti poco rilevano, gli USA hanno ucciso un funzionario di uno Stato estero sul territorio di uno Stato terzo, l’Iraq. È vero che la sovranità dell’Iraq è limitata dagli eventi della storia recente, che non riassumo qui, ma questa condotta degli Stati uniti spalanca un’altra voragine nel costrutto del diritto internazionale voluto dopo la Seconda guerra mondiale e offre ad altri, in particolare alla Russia, uno ghiotto precedente per fare altrettanto. Pur se condanna formalmente il fatto, Mosca non tarderà ad avvalersene, alla prima occasione, per giustificare qualche sua corbelleria.
Anche la minaccia espressa da Trump nelle ore successive, di colpire siti culturali iraniani, è contraria alle convenzioni internazionali a tutela dei beni culturali, sia in pace sia in guerra, firmate anche dagli USA. Si può ben dubitare, poi, dell’utilità dell’azione degli Stati uniti: Soleimani era, nella crudeltà dei suoi atti, abile e carismatico, ma non insostituibile. Dopo un momento di riorganizzazione, le strategie dell’Iran continueranno, per mano di altri. Una superpotenza dovrebbe saper tutelare i propri interessi in modi meno trogloditici e, soprattutto, più efficaci.
Come reagiranno l’Iran e gli altri attori della regione
Ci sono eccezioni, ma è raro che le reazioni a fatti del genere arrivino subito. Nell’immediato può piovere qualche missile su edifici USA qua o là, si sono segnalati attacchi informatici sparsi, ma non è a questo che bisogna guardare. Fatti come l’uccisione di Soleimani possono cambiare i rapporti di forza su un certo scenario, ma ciò avviene nel tempo e suscita reazioni non sempre simmetriche.
Ora il regime iraniano può stringere ulteriormente il giogo sulla dissidenza interna, incoraggiata dalla soppressione di Soleimani; può creare problemi al traffico di petroliere nello stretto di Hormuz oppure far colpire per procura interessi USA in vari luoghi, ma non ha molte leve a disposizione, a meno che la Russia o la Cina non lo spalleggino. Ciò pare, al presente, improbabile. Anche La mozione votata dal parlamento iracheno per l’allontanamento delle truppe straniere dal Paese non sembra in grado di produrre effetti reali. Non bisogna però cadere nell’errore opposto, di sottovalutare le astuzie dei regimi mediorientali. E’ necessario attendere le azioni concrete di tutti gli attori della regione, senza dare eccessiva importanza agli annunci a caldo.
Un’altra possibilità
Vi è un’altra possibilità, che in queste ore mi sembra poco esplorata: che non succeda nulla. Molto dipenderà da come agiranno gli USA dopo aver ucciso Soleimani: quando, nell’aprile 2018, gli Stati uniti lanciarono missili sulla Siria, sembrò annunciarsi un cambio di passo nella strategia statunitense nella regione e si paventò addirittura un conflitto globale. Non seguirono altre azioni da parte di Washington e lo scenario siriano è tutt’oggi a immutata dominanza russa. Se anche l’uccisione di Soleimani non è inserita in una strategia, come non lo erano le cannonate su Damasco, non si può escludere che resti tutto o quasi invariato, dopo qualche fuoco d’artificio verbale.
Tre anni di presidenza Trump ci hanno insegnato che la capacità di valutazione del presidente USA non va oltre la superficie. È così con la Corea dei nord, con la Siria e persino nella guerra dei dazi con la Cina. Cerca la dichiarazione, l’atto o il provvedimento clamorosi, ma non sembra capace di misurarne le conseguenze e costruire con coerenza un dopo. Trump ha dei consiglieri, ma abbiamo visto che chiunque mostri maggiore lungimiranza e intelligenza, nel suo staff, viene licenziato come un pericoloso intellettuale di cui diffidare: è andata così persino con John Bolton, è tutto dire. L’attuale segretario di Stato USA, Mike Pompeo, è totalmente piegato a Trump. È stato scelto per questo e, in ogni caso, il suo profilo sembra sempre meno adeguato al momento storico che stiamo vivendo.
L’Europa e i suoi Stati membri
Archiviata troppo tardi l’inconsistente Mogherini, a capo delle relazioni internazionali dell’Unione europea c’è ora Josep Borrell, finalmente un profilo adeguato e credibile, dal punto di vista personale e professionale. Tuttavia, la politica estera e di sicurezza dell’Ue è l’esito delle decisioni degli Stati membri, in particolare della Francia, della Germania e, se lo volesse, dell’Italia.
La situazione è questa: la Germania, nel fosco crepuscolo dell’era Merkel, ha uno dei ministri degli esteri meno convincenti della sua storia recente; in Francia la situazione è migliore, ma Parigi è già impegnata sullo scenario dell’Africa occidentale, dove investe denaro e perde vite di soldati nel sostenere gli Stati della regione contro le sacche di terrorismo islamico, affiancata da Germania e Olanda, mentre alcuni passi di Emmanuel Macron verso la Russia creano qualche confusione nell’interpretare le intenzioni francesi.
Quanto all’Italia, Roma, di fatto, non ha un ministro degli esteri. I politici della cosiddetta «Prima repubblica» italiana avevano i difetti che ognuno ricorda, ma sapevano che l’Italia doveva mantenere antenne e contatti, in Africa e Medioriente, nell’interesse della propria sicurezza. Sapevano quali leve muovere, per disinnescare crisi pericolose per la Penisola o per gli alleati. Quel patrimonio di conoscenze è andato perduto, dagli anni Novanta in poi.
A Roma servirebbe un Ministro degli esteri capace di dominare nuovamente quegli scenari, non solo per l’Italia, ma soprattutto per cooperare alla formazione della politica estera comune europea, poiché gli Stati singoli non hanno più alcun peso, nelle dinamiche di oggi. È errato lamentare che Francia e Germania predominano sullo scenario europeo: l’Italia si esclude da sola, non mostrandosi in grado di contribuire con idee e uomini adeguati.
Turchia in Libia
S’inserisce qui un breve appunto sull’approvazione dell’intervento turco in Libia, poiché, anche in questo caso, l’Italia brilla per la sua assenza. La Turchia sta allargando i suoi interessi in Africa del nord. Così continuando, non sarà più possibile avere una politica europea nel Mediterraneo meridionale senza scontrarsi con gli interessi turchi. Tralasciando altre perniciose conseguenze, cito solo un dato. La Turchia ricatta già oggi l’Europa con l’arma dei migranti sulla via balcanica. Entrata in Libia, controllerà anche la via mediterranea. Erdoğan imporrà all’Europa ciò che vorrà lui, aprendo e chiudendo il rubinetto dei flussi migratori, come Putin farà (e in parte fa già ora) con quello del gas.
Considerazioni finali
Quando le grandi o medie potenze parlano di lotta al terrorismo, occorre sapere che questa, oggi, non è che un pretesto facile da vendere ai media e alle popolazioni. Trump, Putin, Erdoğan, gli iraniani, i sauditi, gli emiratini, non lottano contro questo o quel fomentatore di terrore internazionale: scelgono quale criminale rimuovere dal loro orizzonte per continuare a fare merenda con il criminale del campo opposto.
Putin, in Siria, afferma di combattere i terroristi del cosiddetto Stato islamico, ma lo fa sostenendo il ristabilimento e la perpetuazione della dittatura di al-Asad; Trump proclama di scagliarsi contro l’Iran che sostiene il terrorismo internazionale, ma intanto si allea e fornisce armi all’Arabia saudita, un regime teocratico oppressivo che guida una sanguinosa guerra nello Yemen e i cui tentacoli arrivano sino a noi, attraverso il finanziamento dei centri islamici dalla Bosnia Erzegovina in qua, nell’Europa tutta. La Turchia scende in Libia vantando di sostenere il governo legittimo di al-Sarraj (e ciò è formalmente vero), ma realizza il disegno di espandere la sua influenza autoritaria su un arco che assomiglia sempre più alla geografia del vecchio Impero ottomano.
In queste ore circola in Rete la fotografia di un ragazzo sulla trentina, in abbigliamento sportivo, che consulta il suo telefonino con aria annoiata stravaccato sulle panchine di attesa di un aeroporto spagnolo, in vacanza per le feste di fine d’anno con la sua piacente fidanzata. Quel giovane è il Ministro degli esteri di una delle tre maggiori Nazioni europee e capo del partito che ha raccolto la maggioranza relativa nelle ultime elezioni, fotografato nelle ore in cui, su scenari internazionali di vitale importanza per il suo Paese, si dipanano le crisi appena descritte.
Se la foto è autentica, è l’illustrazione più tristemente efficace dell’atteggiamento delle popolazioni europee di oggi verso il loro presente. I politici che esse eleggono a governarle ne sono lo specchio impietoso.