L’ostacolo più duro è stato la frontiera tra Irlanda del Nord e resto d’Irlanda. Nei negoziati per la Brexit, l’Unione europea sta funzionando a meraviglia, nel difendere gli interessi degli Stati membri e dei loro cittadini. L’accordo annunciato mette nero su bianco l’unica via possibile, ma è a un’ipocrisia. Londra dovrà accettare regole stabilite dall’Ue e perde il diritto partecipare a deciderle.
E’ stato definito il testo dell’accordo per l’uscita del Regno unito dall’Unione europea: la montagna ha partorito il topolino. Evito l’analisi tecnica, mi concentro sui punti che mi hanno colpito nei dibatti internazionali di questi giorni e sulla lezione che tutti possiamo trarre da ciò che sta accadendo. Una sola premessa giuridica: il testo dell’accordo è stato adottato, ma per valere dovrà essere ratificato dal Parlamento e dal Consiglio europei e dal Parlamento di Londra. Vi sono pochi dubbi che i primi lo accetteranno, ma molti che lo accetterà il secondo. E’ presto per parlare di questione chiusa.
Come si temeva, l’ostacolo più duro è stato la frontiera tra Irlanda del Nord e resto d’Irlanda. Gli irlandesi, sia gli uni sia gli altri, rifiutano una frontiera tra le due parti dell’Isola, quella indipendente cattolica e quella facente parte del Regno unito, dove la convivenza tra cattolici e protestanti (specchio, come al solito, di divisioni sociali) ha causato decenni di violenze che tutti ben ricordiamo.
Le violenze sono cessate solo nel 1998, con il cosiddetto Accordo del Venerdì santo, che ha messo pace fra le parti con il sostanziale contributo dell’Unione europea ed è stato accettato con referendum da entrambe le popolazioni.
Tutti gli irlandesi possono sentirsi irlandesi perché possono muoversi liberamente da una parte all’altra dell’Isola. Ciò avviene sin dal 1923, quando un accordo di libera circolazione ridusse al minimo i controlli di transito. Oggi, la frontiera tra le due Irlande è ormai invisibile e nessuno vuole che ritorni. Se il Regno unito esce dall’Unione europea, però, non c’è alternativa, perché questa frontiera diventa un confine tra uno Stato Ue e uno extracomunitario, come quella tra Polonia e Ucraina. Per due anni, ipocritamente, i politici pro-Brexit hanno predicato che una soluzione si sarebbe trovata, ma una soluzione non esiste: dinanzi a una frontiera, o sei di qua o sei di là, il resto sono chiacchiere.
L’Irlanda ha insistito molto perché l’Unione europea la sostenesse sul punto: noi non vogliamo una nuova frontiera tra le due parti della nostra isola. Tutti gli altri 26 Stati dell’Unione hanno tenuto, dando lodevole prova di unità e solidarietà con la giusta pretesa irlandese. Nei negoziati per la Brexit, l’Unione europea sta funzionando a meraviglia, nel difendere gli interessi degli Stati membri e dei loro cittadini, e particolarmente degli irlandesi, toccati nel cuore. Lo si dice poco, in tempi in cui dell’Ue si preferisce sottolineare le magagne, ma è così.
L’accordo sulla Brexit annunciato l’altro ieri mette nero su bianco l’unica via possibile, che è a sua volta un’ipocrisia: il Regno unito esce dall’Unione europea ma resta nell’unione doganale europea, così non vi è bisogno di frontiere. Ciò significa, però, che Londra dovrà accettare regole importanti, di carattere economico e mercantile, stabilite dall’Ue, ma non avrà più il diritto di partecipare a deciderle. Non potrà nemmeno concludere accordi commerciali con Stati terzi, senza chiedere il permesso all’Europa. Agli inglesi è stato fatto credere che uscire dall’Ue avrebbe significato un recupero di sovranità: di sovranità formale, forse. Di sovranità sostanziale, cioè concretamente esercitata, il Regno unito ne perde invece una quota dolorosa, poiché non avrà più voce in capitoli importanti della sua vita economica. Il referendum di uscita dall’Ue è formalmente rispettato, ma sostanzialmente tradito.
E’ vero che Londra non dovrà più attenersi alle norme sulla libera circolazione delle persone: l’unione doganale riguarda solo le merci. Conseguenza pressoché automatica del trattato, però, è che in Irlanda del Nord andrà trovata una quadra che permetta libertà di circolazione e stabilimento anche dei cittadini in quel territorio, perché un’unione doganale, tra le due Irlande, non basta a definire le relazioni confinarie. Ciò metterà quella parte di Regno unito in una posizione di privilegio rispetto al resto del Paese. Significa che l’Irlanda del Nord diventerà meta preferita di imprese e investitori, che da lì potranno assumere personale e muoversi come se fossero ancora nell’Ue, mentre dal resto del Regno unito non potranno più. Gli scozzesi, per voce della signora Sturgeon, hanno già fatto sapere di non gradire. Ciò comporterà anche controlli tra Irlanda del Nord e resto del Regno Unito, anche se non sotto forma di frontiera fisica: una forma di separazione che i nordirlandesi comunque non vogliono. Altro punto: Londra spera di negoziare accordi commerciali con altri Stati del mondo. Si accorgerà che questi, in cambio di tali accordi, chiederanno visti e accesso al mercato del lavoro del Regno unito per i loro cittadini, facendo rientrare dalla finestra gli immigrati che Londra credeva di cacciare dalla porta dopo la Brexit.
In tutto il dibattito sul referendum Brexit, la questione irlandese è stata ignorata o sottovalutata, forse perché tutti sapevano che era irresolubile. Mi ha colpito, in questi giorni, il quasi disprezzo con il quale alcuni politici inglesi favorevoli alla Brexit parlano del destino dell’Irlanda: l’Irlanda del Nord è parte del Regno unito, il resto d’Irlanda è uno Stato indipendente, è normale che ci sia una frontiera e a noi va bene così, cosa vogliono questi accidenti di irlandesi. «Noi siamo noi e voi non siete un […],» verrebbe da parafrasare una nota battuta del cinema. Un deputato dell’UKIP si è spinto a paragonare la frontiera tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda a quella tra Italia e Canton Ticino, mostrandosi ben povero di preparazione sulla questione.
Quando sento parlare politici inglesi pro-Brexit, mi colpisce la loro inconsapevolezza. Anche dietro a compassati deputati con sottile accento british, si svelano lacune capitali di competenza giuridica, conoscenza della Storia del loro stesso Paese, incapacità di misurare la rilevanza dei problemi. Il campo opposto non è messo meglio. Con un misto di presunzione, nostalgia imperiale e incapacità di prendere posizioni forti, tutti sembrano aver ragionato più o meno così: «Facciamo ‘sta Brexit, poi si vedrà.» Ecco, il momento del si vedrà è venuto e lo spettacolo è infamante, per tutti.
La questione irlandese non è secondaria, è centrale, perché l’Unione europea è nata per risolvere proprio quelle questioni territoriali e di frontiera dalle quali sono sorte guerre atroci, in secoli di Storia europea. Chi fondò l’Unione, allora Comunità europea, aveva capito che per prevenire altri conflitti, sorti su pretesti etnici e nazionalistici violando e ridisegnando a piacimento le frontiere, c’era un modo solo: toglierle. Fare sì che chi vive in territori attraversati da frontiere non sempre corrispondenti alla storia e alla cultura dei popoli consideri indifferente essere di qua o di là del confine, perché la frontiera non si vede più, anche se di qua c’è uno Stato e di là ce n’è un altro, e in entrambi si ha una ragionevole quota di diritti fondamentali rispettati, perciò essere cittadini dell’uno o dell’altro non ti impedisce di sentirti appartenente a una realtà geograficamente e culturalmente unita, anche se la Storia l’ha divisa politicamente, come l’Irlanda.
Per questi motivi, la libera circolazione delle persone non è solo un accordo che ci evita di tirar fuori i documenti in dogana. E’ un elemento essenziale della costruzione di un’Europa senza conflitti etnici e nazionali. Con l’Unione europea, dopo secoli, l’obiettivo è raggiunto e bisognerebbe averne rispetto. Dovrebbe ricordarselo anche chi, in Italia, scherza con il fuoco mettendo a dura prova la libera circolazione, malgestendo i flussi di migranti e rompendo il rapporto di fiducia fra Stati europei che ha consentito questo fondamentale progresso storico.
L’altra lezione che si trae dal pasticciaccio Brexit riguarda l’istituto del referendum. Far votare alla popolazione un esito che si programma in anticipo tacendo i problemi reali, abusando della credulità popolare e con dirigenti politici che rinunciano alle loro responsabilità, si converte in un inganno del «popolo» la cui «sovranità» si vorrebbe onorare, per lasciarlo più povero e malservito di prima.
La nostra epoca non ha precedenti storici. Il progresso tecnologico, tra molte altre evoluzioni, ci mette di fronte a un mondo nel quale i singoli Stati non possono più esercitare una sovranità sostanziale da soli. Ci riescono solo insieme, se uniti o strettamente legati in realtà più grandi. Non è colpa di nessuno, facciamocene una ragione e impariamo a gestire questa nuova realtà.
Brexit significa che chi pensa di far tornare indietro l’orologio della Storia si trova comandato dagli eventi, senza più voce per concorrere a determinarli. Come dimostra il caso irlandese, tornare indietro riapre questioni che l’Unione europea, con tutti i suoi difetti, si è dimostrata brillantemente capace di risolvere. Attenti a non giocare con il fuoco. Le prossime generazioni ce ne chiederanno conto.
Gaja Christiane Beatr Neubert ha detto:
Grazie per la chiara esposizione di questo pasticcio britannico, che si riflette su tutta la Ue. Purtroppo dei politici responsabili in buona fede e con un filo di coraggio si è persa la ricetta!
Luca Lovisolo ha detto:
Grazie. LL