Ho visto lo sceneggiato televisivo «Černobyl’»

Cernobyl, la serie televisiva sulla catastrofe
Černobyl’, Parco alla memoria dei villaggi colpiti dalla catastrofe | © Luca Lovisolo

La replica in onda in questi giorni in Italia dello sceneggiato dedicato alla catastrofe di Černobyl’. Il prodotto svolge un’opera di memoria encomiabile e necessaria. I fatti sono riportati con una certa fedeltà, ma chi conosce la sequenza degli eventi sente alcune mancanze. La prima serata ha offerto molti spunti per valutare la qualità del prodotto e ricordare le circostanze di allora.


L’emittente italiana «La 7» ha iniziato a trasmettere la replica dello sceneggiato televisivo dedicato alla catastrofe di Černobyl’, prodotto da HBO. Non avevo avuto l’opportunità di vederlo quand’era uscito, l’anno scorso, perciò non mi era stato possibile rispondere a chi allora mi chiedeva un parere, sapendo che conosco quella vicenda abbastanza approfonditamente e che sono stato sui luoghi del disastro, per ragioni professionali. Dirò qualcosa adesso, dopo aver visto la prima serata. Se utile e possibile, ci tornerò con un prossimo contributo quando avrò visto l’ultima.

Credo che sia poco opportuno ricercare l’esattezza del dettaglio storico: uno sceneggiato non è un documentario e può prendersi alcune licenze, se queste non tradiscono l’obiettivo della comunicazione. Si può parlare degli aspetti generali, non meno importanti. La parte trasmessa ieri sera comincia con l’anticipazione del suicidio per impiccagione dell’accademico Valerij Alekseevič Legasov, ricostruisce il momento in cui è avvenuta l’esplosione, i primi soccorsi e le riunioni governative d’emergenza. Si chiude con il noto episodio dei tre tecnici che scendono nelle cave sottostanti il reattore esploso per svuotarle dell’acqua ed evitare una ancor più grave esplosione.

I fatti raccontati sono veri e resi con ragionevole fedeltà, ma chi conosce gli eventi sente alcune mancanze. Il momento dell’incidente è raccontato in modo molto spiccio. La catastrofe fu causata dall’insistenza dell’ingegnere capo di quel turno, Anatolij Stepanovič Djatlov, che volle eseguire un certo esperimento impostando valori non conformi con quelli prescritti. La tensione che si creò nella sala comandi, dove i tecnici più giovani tentarono invano di dissuaderlo da quella mossa, è resa meglio in altre produzioni ed è un punto chiave del racconto della catastrofe. E’ certamente possibile che la sceneggiatura ritornerà su quel momento, ma sinora l’evento è parso accadere quasi come una fatalità, mentre nella realtà fu preceduto da una catena di azioni volontarie e controverse che dicono molto sia sul l’incidente stesso sia sul contesto in cui maturò. Il principio di autorità che indusse i collaboratori della sala comandi a obbedire comunque al superiore, pur consapevoli del rischio, è un elemento essenziale per comprendere la dinamica della catastrofe e collocarla nella realtà del sistema sovietico.

Non si tratta solo della subordinazione gerarchica che governava la società sovietica, nella quale l’obbedienza aveva un significato molto simile, per avere un termine di paragone, a quello che ha nelle organizzazioni religiose. Gli operatori della centrale erano dei privilegiati: guadagnavano più della media e vivevano a Pripjat’, una città moderna costruita dal nulla per ospitare loro e gli addetti alle altre strutture militari e civili che stavano sorgendo nei dintorni di Černobyl’. Non obbedire all’ordine di Djatlov avrebbe significato esporsi alla sua minaccia di essere cacciati, magari per finire in qualche remota provincia a costruire reattori di sottomarino (come aveva fatto lui, in anni precedenti). Questo aspetto, nello sceneggiato HBO, emerge poco: lo scontro fra tecnici in sala comandi, le prime bizze del reattore e i loro tentativi di riprenderne il controllo si riducono a poche battute; l’evento stesso dell’esplosione sembra prodursi in poco tempo, mentre fu una sequenza più dilatata. Vi fu una prima esplosione, interna al reattore, poi venne quella che ne causò lo scoperchiamento.

Tragicamente aderenti al racconto di un ingegnere sopravvissuto, invece, i primi momenti dopo l’esplosione, in cui gli operatori che si trovavano nei locali attigui al reattore tentarono di andare a vedere cosa fosse successo. Furono investiti da macerie e radiazioni che, letteralmente, li sfigurarono. L’ingegnere, nei documentari in cui parla in prima persona, racconta di aver riconosciuto uno dei suoi operatori solo dal filo di voce con cui lo esortava ad andare a salvare gli altri: il volto era ormai irriconoscibile.

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Vero che ci fu l’atto eroico dello svuotamento dei serbatoi sotto il reattore: se il materiale radioattivo percolato dal nucleo fosse entrato in contatto con quella massa d’acqua, secondo i tecnici si sarebbe prodotta un’esplosione che avrebbe raso al suolo intere città in un raggio di centinaia di chilometri e compromesso la possibilità di vivere in buona parte d’Europa. Quel timore era reale. Noi stessi europei occidentali, forse, non saremmo più qui a raccontarci i fatti, se quell’eventualità si fosse avverata. Oggi vi è chi, con un certo cinismo, polemizza affermando che quell’ipotesi era campata in aria. I fisici nucleari sovietici non erano l’ultimo grido, ma non erano nemmeno degli sciocchi. Il solo rischio i che un tale evento potesse prodursi era ben sufficiente a prendere ogni misura per scongiurarlo.

Si vedrà se lo sceneggiato racconterà dei minatori chiamati dalle miniere di Tula per scavare un tunnel sotto la centrale e ricavare una camera isolamento, sotto il reattore, per prevenire il percolamento della massa radioattiva nella falda acquifera. Lavorarono a temperature e livelli di radioattività intollerabili, ma l’opera fu compiuta. Vi furono tante storie eroiche: esaltare l’abnegazione dei tecnici che svuotarono le vasche è comprensibile per l’efficacia della narrazione, ma non deve far dimenticare i tanti che offrirono le loro vite o compromisero la loro salute per il resto della loro esistenza, per evitare danni ancor peggiori ai propri concittadini e al resto del mondo.

Alquanto deludente, devo dire, il racconto dell’evacuazione della città di Pripjat’. Quarantamila persone dovettero abbandonare le loro case in poche ore, convinte di tornarci dopo tre giorni, ma non vi tornarono mai più. Qualcuno forse lo intuì, altri no. I racconti di coloro che dovettero lasciare i loro appartamenti si trovano in molti documenti e parlano di un evento decisamente meno asettico di come viene raccontato nello sceneggiato di HBO. Senza eccedere nel patetico, forse il dramma degli evacuati di Pripjat’ poteva essere reso con più introspezione, come l’insipienza di chi consentì che la mattina successiva, poche ore dopo la catastrofe, i bambini andassero regolarmente all’asilo, a scuola e nei parchi giochi. Qualche genitore capì da solo la situazione e andò a riprenderseli, altri, ignari, fidandosi delle autorità, li lasciarono esposti a dosi disumane di radiazioni.

L’evacuazione della città avvenne solo il pomeriggio del giorno successivo, ordinata con un annuncio radiofonico: non sono particolarmente impressionabile, ma tutt’oggi mi prende un brivido, al sentire quel «Vnimanie, vnimanie!» [attenzione, attenzione!] ripetuto all’infinito, prima che l’annunciatrice cominci a proferire tutte le ipocrisie tipiche di quelle situazioni: l’evacuazione è «temporanea» ed è causata da una «situazione sfavorevole,» siate calmi e organizzati, chiudete luce e gas, prendetevi l’indispensabile per pochi giorni e qualcosa da mangiare, il Partito sta sistemando tutto. Sappiamo come andò a finire. Nello sceneggiato di HBO, di questa drammaticità emerge poco.

Le riunioni dei politici sono rese in modo piuttosto approssimativo ma efficace: lo scopo manifesto della regia era di sottolineare le contraddizioni e le testardaggini dei dirigenti che furono investiti di quel dramma. Il racconto è molto stringato: nella realtà, Michail Gorbačëv fu tirato giù dal letto alle cinque del mattino, racconta lui, e gli fu detto che nella centrale era scoppiato un incendio, non che era esploso il reattore. Nello sceneggiato lo vediamo comparire fresco come una rosa direttamente in una riunione. A venir svegliato fu anche l’allora capo del governo sovietico, Nikolaj Ivanovič Ryžkov: seguì una serie di comunicazioni concitate fra vertici, per capire cosa fosse realmente successo. Il racconto di quelle ore avrebbe offerto un efficace spaccato dell’organizzazione del potere sovietico.

Ben reso, nella sua drammaticità, il triste destino dell’accademico Legasov, una delle poche, forse l’unica mente che capì sin da subito la portata del disastro. Andò proprio così: ignorato e vilipeso, faticò come una iena per far passare la sua linea d’intervento, tentando come poteva di convincere i vertici politici della gravità dell’accaduto. Si trattenne sul luogo del disastro, si spese in tutti i modi e ne uscì con la salute fisica e psichica distrutta. Si suicidò due anni dopo la catastrofe. Il riconoscimento del suo ruolo arriverà solo con l’onorificenza attribuitagli, dopo la sua morte, dalla Russia di El’cin, quando l’Unione sovietica era già crollata. L’idea di far partire il racconto proprio dal suicidio di Legasov è un grande merito dello sceneggiato di HBO: il suo ruolo è generalmente ignorato da altre narrazioni della catastrofe, eppure è un triste emblema di un sistema in cui capetti di partito senza alcuna preparazione comandavano su ogni cosa, inclusi i tecnici che ne sapevano più di loro. Una storia che ha molto da insegnarci ancora oggi.

Impressionante la fedeltà della ricostruzione dei luoghi, degli oggetti, degli automezzi. Le vie di Pripjat’, la tettoia a curva dell’hotel Polissja, le aiuole generose di una città a modo suo bellissima; le vecchie ambulanze sovietiche modello Latvija, con il musetto sporgente, le Žiguli (le FIAT 124 costruite in URSS su licenza) della Milicija; le tappezzerie degli appartamenti con decorazioni kitsch, le stesse che ho ritrovato nell’albergo in cui io stesso ho dormito, tre anni fa, a Černobyl’, immutate da allora (ma in quegli anni, bisogna dire, usavano ancora anche da noi).

Vi sono dettagli della produzione che lasciano perplessi e che sarebbe bastato poco per affinare. Più in generale: la vicenda avviene nell’Unione sovietica, ma la narrazione conserva tratti emotivi e lirici tipici dei film catastrofici statunitensi. Il mondo sovietico era molto più rigido, formale, uniforme. Il clima di allora è reso molto meglio dai soporiferi film sovietici del genere, nei quali un ufficiale dell’aeronautica è capace di far atterrare un aereo in difficoltà stando contemporaneamente impettito al telefono con i vertici del Partito, senza alzare la voce e senza scomporsi dietro la scrivania come un busto di Stalin. «Černobyl’» rivela a tratti una sorta di scollamento fra l’ambientazione fedele alla realtà sovietica e i personaggi che vi si muovono, tendenti a toni epici e moraleggianti tipici dei copioni USA.

Un altro dettaglio, una piccolezza, ma pur sempre un aspetto culturale la cui trascuratezza lancia un’ombra su una produzione che avrebbe meritato più attenzione. E’ diffuso il luogo comune che i cittadini sovietici, tra di loro, si chiamassero sempre compagno: non era così. Compagno si usava, certo, in determinate circostanze, ma vi erano molti modi di rivolgersi al prossimo, dipendenti dalla confidenza, dal grado di subordinazione sul lavoro o nella politica. Era molto abituale l’uso di nome e patronimico, ma ci si chiamava anche con il solo cognome o il solo nome, oppure si usava compagno seguito dalla carica svolta o, ancora, il meno complimentoso cittadino! Lo sceneggiato insiste molto su compagno anche in situazioni dove difficilmente i sovietici lo avrebbero usato nella realtà. Ciò attribuisce ai dialoghi, in diversi punti, un che di artificiale e inaccurato.

Un altro, macroscopico e fastidiosissimo problema è l’errata pronuncia di nomi, cognomi e toponimi. Non si contano, i nomi di persone e di località pronunciati con l’accento sbagliato: uno su tutti, quello dell’ingegnere capo che fu all’origine della catastrofe, Djatlov: si pronuncia Diàtlaf, ma nello sceneggiato, fin dai primi istanti, viene pronunciato «Dìatlov» con l’accento sulla i: per inciso, basta guardare com’è scritto (Дятлов) per rendersi conto che è matematicamente impossibile che l’accento cada in quel modo. Controllare le pronunce esatte, in sede di doppiaggio italiano, avrebbe richiesto poco sforzo. Al sentire queste pronunce claudicanti, a chi conosce il russo, dopo la prima mezz’ora cominciano a far male le orecchie. Tutti gli altri forse non se ne accorgono, ma ricevono un’informazione sbagliata. Perché così poca cura, in una produzione di tanto impegno?

La stessa impressione l’ha data il programma di approfondimento che ha seguito la proiezione, condotto da un giornalista italiano che si è fatto apprezzare, in altri contesti. Fin dalle prime battute ha allineato grossolani errori di pronuncia. Confesso di aver spento la TV e di essere andato a dormire, dopo il terzo nome pronunciato male. Un minimo di rispetto per l’ascoltatore sarebbe dovuto e, del resto, quali informazioni potrà mai darmi sulla catastrofe di Černobyl’ un giornalista che non si preoccupa nemmeno di conoscere come si pronuncino correttamente i nomi dei luoghi e dei protagonisti? Se approfondimento dev’essere, lo sia sul serio, o tutti a nanna.

Nel suo complesso, lo sceneggiato di HBO rende un servizio encomiabile: per coloro che hanno meno di quarant’anni la catastrofe di Černobyl’ è uno sparuto ricordo d’infanzia, o nemmeno quello, eppure ha ancora molto da insegnarci. Molti ritengono, e io tra questi, che la catastrofe di Černobyl’ sia stata il primo passo verso il crollo dell’Unione sovietica. I sovietici reagirono con eroismo alla sventura, ma non è questo il punto, Černobyl’ non fu una sventura. Fu il condensato di tutte le falle del regime sovietico, che vennero tragicamente alla luce nella condotta di chi dirigeva quella notte la sala comandi, nella cieca subordinazione dei suoi sottoposti, nei costruttori che eressero una centrale nucleare sprovvista dei sistemi di sicurezza che avrebbero potuto proteggere l’umanità dalla follia di chi sedeva nella stanza dei bottoni.

Oggi a Černobyl’ si può andare senza rischi particolari, se ci si attiene alle indicazioni di sicurezza. E’ un viaggio da consigliare, a patto di non prenderlo come un’escursione qualunque. Se lo si fa con lo spirito giusto, se ne torna un po’ cambiati. Chi lo desidera trova il diario del mio viaggio sui luoghi della catastrofe >cliccando qui.

| Un secondo articolo sullo sceneggiato, scritto dopo aver visto le altre puntate, si trova >qui.

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Luca Lovisolo

Lavoro come ricercatore indipendente in diritto e relazioni internazionali. Il mio corso «Capire l'attualità internazionale» accompagna chi desidera comprendere meglio i fatti del mondo. Con il corso «Il diritto per tradurre» comunico le competenze giuridiche necessarie per tradurre testi legali da o verso la lingua italiana.

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