Trinità polacca

Danzica | © Marcin Krzyzak
Danzica | © Marcin Krzyzak

Nella valutazione dei risultati elettorali in Polonia desidero mettere in evidenza tre elementi, fra i molti che sono comparsi negli innumerevoli commenti alle elezioni del 25 ottobre 2015: il ruolo della Chiesa cattolica, l’eredità culturale dell’era comunista e la posizione della Polonia rispetto alla Russia. Tutti e tre hanno giocato un ruolo nelle scelte che condizioneranno i prossimi anni di storia polacca.


La Chiesa cattolica svolge ancora un ruolo decisivo, nell’orientamento della società polacca. Chiesa cattolica, in Polonia, significa qualcosa di molto diverso dall’immagine di cattolicesimo che l’attuale Papa Francesco cerca di imporre. Analogamente a quanto fecero i circoli ecclesiastici dell’America latina durante le dittature degli anni Settanta, i responsabili della chiesa polacca puntano sul nazionalismo e su solide basi patrimoniali. Non importa, se Papa Francesco predica l’attenzione ai gruppi socialmente più svantaggiati e l’accoglienza verso i migranti: colonne portanti di una parte prevalente di Chiesa polacca restano l’alleanza con le forze di orientamento nazionalista e la resistenza contro ogni adeguamento alle mutate esigenze dell’uomo contemporaneo. In conseguenza di ciò, la Chiesa polacca guarda all’Unione europea con diffidenza, in quanto baluardo della laicità e delle libertà fondamentali. Tra i cattolici polacchi vi sono anche altri orientamenti, ma gli elettori hanno favorito l’ala conservatrice. Un contributo decisivo lo hanno dato media cattolici come Radio Maryja e TV Trwam. Queste emittenti, che hanno più volte suscitato attenzione a causa di sospetti di nazionalismo e antisemitismo, raccolgono ascolti elevati presso gli strati di popolazione culturalmente ed economicamente più deboli (Radio Maryja non va confusa con la foneticamente omonima italiana Radio Maria, che pur non toccando gli estremi dell’emittente polacca, è capofila di un network internazionale di antenne cattoliche orientate anch’esse a un estremo conservatorismo religioso e culturale).

Da una società che per più di quarant’anni si è sviluppata nella retorica dell’economia socialista, ci si attenderebbe di tutto tranne che il nazionalismo. Il marxismo non doveva produrre automaticamente l’internazionalismo? Nella teoria marxista, infatti, la nazione non era che una necessaria e provvisoria fase intermedia verso lo scioglimento degli Stati nazionali, considerati culle dell’iniquità sociale, con l’obiettivo di stabilire un ordine mondiale unitario, equo e senza frontiere. Questo sviluppo non vi è stato. Già con Lenin, nella narrazione comunista ricomparve l’elemento nazionale. Se si guarda alla vita quotidiana e alla retorica educativa delle società dell’Est Europa sino alla fine degli anni Ottanta, si osserva quanto l’orizzonte di quelle popolazioni fosse strettamente rivolto alla dimensione nazionale. Alla fine dell’era comunista, le chiese e i molti movimenti da nazionalisti a xenofobi che oggi, non a caso, prosperano nei Paesi dell’ex Patto di Varsavia, si agganciarono con successo a quella base culturale nazionalista.

La crisi ucraina ha reso ancor più difficili i già non idilliaci rapporti fra la Polonia e la Russia, turbati da un passato difficile. La Polonia, che fu parte dell’Impero russo, si sente direttamente minacciata dallo slancio militare di Putin, di matrice nazionalista. In riferimento alle relazioni con Mosca, a Varsavia si sono sviluppate principalmente due correnti di pensiero. L’una punta alla garanzia degli interessi polacchi attraverso una sempre più stretta integrazione con l’Unione europea. L’altra mette al centro l’elemento nazionale e preferisce cercare, nella difesa contro la Russia, un filo diretto con gli Stati uniti. Gli elettori hanno scelto la seconda alternativa.

La visione cattolica del mondo, l’idea di società ereditata dall’epoca del comunismo e il nazionalismo hanno una base comune: fanno leva sui sentimenti di paura e debolezza dell’individuo e offrono a uomini impauriti un rifugio su un terreno conosciuto, sotto forma di conservatorismo nostalgico e «valori» fidati, sebbene questi costrutti vengano esaltati dai loro predicatori come ideologie di liberazione rivolte al futuro. Se una tale strategia corrisponda alle sfide del nostro tempo, è dubbio.

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Luca Lovisolo

Lavoro come ricercatore indipendente in diritto e relazioni internazionali. Il mio corso «Capire l'attualità internazionale» accompagna chi desidera comprendere meglio i fatti del mondo. Con il corso «Il diritto per tradurre» comunico le competenze giuridiche necessarie per tradurre testi legali da o verso la lingua italiana.

Commenti

  1. Agnes Bencze ha detto:

    «Da una società che per più di quarant’anni si è sviluppata nella retorica dell’economia socialista, ci si attenderebbe di tutto tranne che il nazionalismo. Il marxismo non doveva produrre automaticamente l’internazionalismo?» Caro signor Lovisolo, non vorrei essere offensiva (spero davvero che non lo sarò), ma non posso farne a meno di reagire a questa domanda retorica. Per una persona cresciuta in uno dei paesi dell’ex blocco comunista europeo, un problema così, formulato in questi termini, è scioccante per la sua ingenuità. Le società dei Paesi sottomessi all’Unione sovietica, e di conseguenza educate ufficialmente «nella retorica dell’economia socialista,» non sono mai state consenzienti con tale indottrinamento. Ma è possibile che i nostri amici/fratelli dell’Europa più fortunata non se ne siano ancora resi conto? Il comunismo esistito in Polonia o in Ungheria non fu una scelta di queste società, ma un regime imposto da fuori e da sopra. Ogni genere di insegnamento ideologico appartenente a questi regimi suscitava nella coscienza collettiva soprattutto avversione o addirittura resistenza. Il marxismo teorizza il mondo senza nazioni: ebbene, per reazione (più che comprensibile) le società europee sottomesse a questa ideologia oppressiva si legavano ancora più fortemente alle proprie identità nazionali. Tra altri motivi, anche perché la dittatura non solo proclamava un’ideologia anti-nazionalista, ma era proprio la conseguenza di un’invasione straniera che, a sua volta, era il risultato dell’imperialismo dell’impero sovietico. Io mi chiedo sempre, come può essere possibile che i nostri amici europei più fortunati oggi, a 25 anni dalla caduta della cortina di ferro, confondano ancora il regime di cui eravamo vittime con i sentimenti e con i valori propri alle nostre società?

    • Luca Lovisolo ha detto:

      Gentile signora Bencze,

      Grazie per il Suo commento, che non mi offende per nulla, anzi, porta un contributo ricco di spunti ai quali desidero rispondere in due parti. Comincio con l’atteggiamento delle popolazioni verso i regimi comunisti e la conseguente eredità che questi hanno lasciato nelle coscienze. Non vi è dubbio che le popolazioni dell’Est rifiutassero l’imposizione del regime comunista. I fatti d’Ungheria del 1956, la Primavera di Praga del 1968 e le meno ricordate rivolte in Germania est del 1953 sono lì a dimostrarlo. La vita in quei Paesi, però, non fu sempre e per tutti pessima: questo deve riconoscerlo anche chi, come me e come Lei, è critico verso quei regimi. Dell’Est ho incontrato molte persone infelici, ma anche tante, tantissime che non sottilizzavano troppo: quella grigia sicurezza sociale offerta dal regime non le scontentava. In alcuni periodi – penso, ad esempio, agli anni Settanta in Romania – si giunse anche a un discreto benessere. I regimi comunisti, in quelle fasi, godettero anche di un certo consenso presso strati non insignificanti di popolazione, poco interessati ai grandi discorsi sulla libertà e paghi del cupo ma quieto vivere quotidiano. I popoli, maggioritariamente, giudicano i loro governi in base al benessere e alla sicurezza che avvertono nelle loro vite, senza ragionare troppo di massimi sistemi, questo i dittatori lo sanno. Senza andare troppo lontano, anche il regime fascista italiano godette di periodi di un diffuso consenso popolare, anche se in Italia oggi non troverà nessuno, o pochi, disposti a riconoscerlo. La popolazione gli voltò più scopertamente le spalle quando le cose cominciarono ad andare male. Indipendentemente da ciò, l’eredità formativa di una dittatura è un’erba grama. Anche in Italia vi era chi avvertiva il regime come un’imposizione, ma certi perversi lasciti mentali del ventennio fascista sono ancora lì vivi oggi, nella società italiana, a settant’anni dalla fine del regime. Lo stesso accade con i regimi comunisti dell’Est: vi era chi li avversava e chi vi si adattava, ma i vizi mentali che hanno diffuso (anche tra chi li rifiutava) attraverso i libri di scuola, la propaganda martellante e le adunate di partito saranno dure a morire. Questo è uno dei motivi per i quali le dittature bisogna prevenirle, oltre che combatterle: non basta farle finire, perché la distorsione che provocano nelle menti si prolunga per generazioni anche dopo la loro caduta.

      Vengo ora alle Sue interessanti considerazioni sul rapporto tra comunismo e nazionalismo, che non contraddicono, ma rafforzano da un diverso punto di vista la mia argomentazione. La retorica comunista parlava sì di internazionalismo, ma questo restava una categoria ampiamente teorica, non foss’altro per il fatto che dai Paesi comunisti era difficilissimo uscire per visitarne altri, a meno che non appartenessero alla stessa sfera politica. A sfruttare l’elemento nazionale fu già Lenin, quando, ad esempio, per sollecitarli ad aderire al comunismo e all’Unione sovietica, permise agli ucraini di rivalutare la loro lingua e cultura nazionali, soffocate dal regime zarista. D’altra parte, per animare le popolazioni a produrre, mancando lo stimolo dell’arricchimento economico individuale, la narrazione del comunismo aveva bisogno di un immaginario in cui svilupparsi, e quello del successo nazionale si prestava idealmente. La stessa economia pianificata non poteva fare a meno di confini di Stato entro cui costruire il suo sistema macroeconomico: senza un orizzonte territoriale, nessun GOSPLAN avrebbe mai potuto pianificare nulla.

      Poi vennero le deportazioni, le volute misture di nazionalità di cui ancora oggi le popolazioni caucasiche, i Tatari di Crimea e tanti altri pagano il prezzo, intese a confondere le nazionalità, questo e vero: non le sostituirono, però, con uno sguardo aperto al mondo, ma con un altro nazionalismo, quello sovietico. Leonid M. Kravčuk, che dal 1991 al 1994 sarà primo Presidente dell’Ucraina post sovietica, ricorda che nel 1974, in un saluto per il cinquantesimo di fondazione della Repubblica sovietica dell’Uzbekistan, scrisse: «Il popolo ucraino si felicita con l’amato popolo uzbeko per i cinquant’anni di fondazione della sua repubblica.» Fu severamente ripreso dall’allora segretario del locale Partito comunista, che lo apostrofò: «Compagno Kravčuk, ma Lei non sa che il popolo ucraino e il popolo uzbeko non ci sono più? Esiste solo un unico popolo sovietico.» La nazionalità non si era dissolta in un mondo senza confini, ma era stata sostituita con un’altra, quella sovietica. Io stesso rimasi stupito, quando, studiando alcuni manuali scolastici di educazione civica usati nella Romania di Ceaușescu negli anni Settanta e Ottanta, vi trovai delle espressioni improntate al più acceso nazionalismo, non dissimili da quelle che si leggono in certi libri analoghi italiani di epoca fascista.

      Qui si innestano le Sue considerazioni: di fronte a queste distorsioni del senso nazionale, ma anche all’imposizione di un orizzonte ristretto alle frontiere di quel sistema, si generava negli individui un legame viscerale all’idea di Nazione, che era esattamente il contrario di quanto predicava il marxismo. Le conseguenze le vediamo oggi, senza per questo nascondere che la presenza del nazionalismo a Est ha evidentemente anche altre cause sociali ed economiche. In ciò, la religione, che ha ritrovato la giusta libertà di espressione dopo la caduta dei regimi, anziché operare per sciogliere le tensioni, sembra, in molti luoghi (in Polonia in primis), volerle sfruttare pro domo sua. Temo che molta acqua passerà sotto i ponti sulla Vistola, prima che l’aria cambi.

      Desidero infine rassicurarla: certamente per noi occidentali è difficile capire il passato recente della parte meno fortunata d’Europa, ma quando, alla caduta dei regimi comunisti europei, masse di cittadini dell’Est si riversarono a ovest per cercare da noi più fortuna e rifugio, quei nuovi arrivati furono generalmente bene accolti. Certo, vi furono anche problemi e pregiudizi, ma oggi in Svizzera, Italia, Germania ci sono cittadini dell’Est che si sono costruiti delle vite serene fra loro, oppure hanno fondato famiglie miste e messo al mondo figli bilingui e appartenenti alle due culture, offrendo spesso modelli di un’integrazione che va a vantaggio di tutti, in un’Europa che non può più pensarsi all’interno delle frontiere dei singoli Stati. Alcuni di quei popoli, a Est, sembrano oggi aver dimenticato che venticinque anni fa erano loro, a chiedere rifugio e ospitalità. Le situazioni sono diverse, lo so, non sono certo fra quelli che semplificano il quadro dicendo che se un popolo, un tempo, ha avuto accoglienza, debba poi garantirla ad altri senza regole od oltre le sue possibilità. Mi sembra, però, che alcuni Governi dell’Est si compiacciano quasi di un atteggiamento di non collaborazione con quel resto d’Europa che, non troppo tempo fa, aprì le porte ai loro cittadini che vi bussavano. Qui, però, il discorso si fa lungo e diverso.

      Grazie per la Sua attenzione e cordiali saluti. LL

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Luca Lovisolo

Lavoro come ricercatore indipendente in diritto e relazioni internazionali. Con le mie analisi e i miei corsi accompagno a comprendere l'attualità globale chi vive e lavora in contesti internazionali.

Tengo corsi di traduzione giuridica rivolti a chi traduce, da o verso la lingua italiana, i testi legali utilizzati nelle relazioni internazionali fra persone, imprese e organi di giustizia.

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